giovedì 26 luglio 2012

LE ALPI MAGNIFICO LABORATORIO PER IL FUTURO. INTERVISTA AD ANNIBALE SALSA.



Annibale Salsa, partiamo da quelle che saranno le tematiche del convegno “Uomo e montagna, paesaggi intrasformazione”, che si svolgerà a TRA LE ROCCE E IL CIELO venerdì 31 agosto 2012: il popolamento della montagna è stato stabile nel tempo o ha visto periodicamente flussi e riflussi?
Il popolamento della montagna non ha avuto una sua costanza stabile, ma ha visto periodi di incremento alternati a periodi di decremento dovuti a circostanze differenti, di natura economica, politica e climatica. Ci sono due estremi: la fase medievale che si può definire l’epoca d’oro del popolamento della montagna alpina e l’epoca moderna- contemporanea che marca il punto di minimo popolamento da molti secoli.
Durante il medioevo la popolazione venne incentivata a popolare zone di montagna con tutta una serie di facilitazioni economiche e grazie ad uno status giuridico particolare, che garantiva contratti d’affitto ereditari per i terreni e lo status di “uomo libero”. Queste pratiche fanno parte di quelle che io ho definito le buone pratiche medievali, che hanno permesso il dissodamento di una enorme quantità di terre, sia nella media montagna alpina, sia in aree al di sotto del livello del mare come nei Paesi Bassi. Questa è la fase virtuosa dell’incremento demografico delle popolazioni alpine.
Vi è poi una fase non virtuosa di questo incremento demografico, quella fase che crea lo squilibrio tra popolazione e risorse legata all’impennata demografica del XIX secolo, il vero e proprio canto del cigno del popolamento delle montagne alpine. Questo processo poi ha innescato un progressivo spopolamento della montagna, non più a carattere stagionale, ma definitivo, a favore delle zone urbane più vicine e più in generale alle zone di pianura.
Dato il trend negativo che ha caratterizzato le popolazioni montane che si sono trasferite in città per avere migliori condizioni di vita e più opportunità di lavoro negli ultimi decenni, come è possibile riportare attività produttive in quota in grado di garantire un ripopolamento?
Va detto con tutta onestà che negli ultimi anni ci sono stati già dei segnali di ripresa e di ritorno alla montagna. Oggi ci sono condizioni di interesse per la vita in montagna che solo 20- 30 anni fa non c’erano, visto che i modelli economici fordisti che si erano affermati durante tutti gli anni ’60 e ’70 del ‘900 avevano costretto i montanari a muoversi verso le città e la pianura per cercare lavoro in quello che è stato giustamente definito un esodo biblico. Negli ultimi 10 anni le condizioni generali si sono invertite, nel senso che oggi ci sono molte più opportunità per chi vive in montagna rispetto a chi vive in città, perché le nuove tecnologie rendono possibile praticare nelle “terre alte” delle attività che nella società industriale non erano possibili.
La società fordista era basata sui poli industriali e sul pendolarismo che hanno drenato risorse e popolazioni dalle zone alpine portandole nelle periferie urbane. Oggi potenzialmente ci sono condizioni nuovamente favorevoli al popolamento della montagna, ma il fatto che questo ancora non avvenga in misura sensibile e costante è dovuto al fatto che mentre durante il medioevo i decisori politici del tempo avevano assecondato il movimento di popolazioni verso la montagna grazie ad incentivi, come ho detto prima, oggi questo non accade perché la politica attuale ancora non coglie l’importanza che riveste il popolamento della montagna e delle Alpi nella fattispecie.
Oggi c’è un bisogno di ritornare ad avere, oltre al discorso sulla qualità della vita superiore che si può trovare in montagna, tutta una serie di prodotti di qualità, siano essi alimentari o di artigianato che solo il popolamento montano può garantire. La montagna, quindi, potrebbe ritornare ad essere popolata, a condizione che i decisori politici di oggi si rendessero conto dell’importanza e del valore che potrebbe avere una montagna popolata e vissuta e adottassero misure conseguenti, cosa che al momento non sta avvendendo.
È possibile mettere in relazione, pur con tutte le debite differenze, la fuga dai grandi centri urbani, iniziata nel tardo impero romano e nei primi secoli del medioevo e poi consolidatasi grazie agli incentivi dopo il 1100, con l’attuale movimento di fuga dalla città sovrappopolata e percepita come più rischiosa e violenta? La montagna può rappresentare di nuovo un rifugio per una parte considerevole delle popolazioni del primo mondo in un futuro non troppo remoto?
È chiaro che sono condizioni completamente diverse, ma legate sempre ad un disagio di vivere in territori che non sono più in grado di soddisfare le necessità pratiche. Al tempo della caduta dell’Impero Romano si trattava di una crisi epocale dovuta a fenomeni migratori massicci, oggi invece si tratta più di una crisi dell’uomo moderno che, anche alla luce della recente crisi economica, ha bisogno di fare i conti con l’economia reale e non più con un’economia fittizia basata sulla finanza e quindi molto più virtuale.
Le basi strutturali dei due fenomeni sono completamente differenti, ma oggi c’è la stessa esigenza di scappare dalla città. Se però questa esigenza non viene sostenuta politicamente rischia di diventare solo una fuga romantica. Quindi bisogna dare a tutta la montagna, soprattutto alle Alpi, degli strumenti di autogoverno che siano slegati da dinamiche elettoralistiche che tendono a chiudere una popolazione su se stessa, facendo in modo che siano le esigenze del territorio con le sue peculiarità il centro focale dell’agire politico. Misure come l’abolizione dei piccoli comuni montani sono guidate da logiche demenziali, che portano all’abbandono e all’inselvatichimento delle terre alte, che è causa di smottamenti, frane e dissesti idro-geologici, come abbiamo visto altre volte in Italia. La salvaguardia della montagna è una questione anche di salvaguardia del territorio e non un fatto prettamente economicistico.
Com’è possibile, nel contesto di scarsità di risorse economiche statali in cui ci troviamo, a tutelare efficacemente le piccole comunità linguistiche montane?
Il discorso della salvaguardia delle lingue va di pari passo con la salvaguardia delle comunità alpine. Il discorso generale riguarda la scuola: se si tolgono dei presidi scolastici nei paesi di montagna ne consegue giocoforza che si favorisce la fuga dalla montagna. Non è solo un problema di tutela di una lingua minoritaria, ma più di tutela di un insediamento minoritario. Queste riforme porterebbero i bambini in scuole più grandi, generalmente in fondovalle, generando forti spaesamenti e innescando di nuovo una urbanizzazione della montagna, che diverrebbe il terreno di gioco e di evasione per i fine settimana e non più uno spazio di vita.
Innanzitutto il presidio territoriale deve essere rappresentato dalle scuole, è fondamentale. Il cittadino di montagna ha necessità di essere riconosciuto come tale, non attraverso la ripetizione vuota di modelli culturali lontani nel tempo, ma attraverso il contatto con un patrimonio culturale rivisitato e attualizzato. Non un passatismo, quindi, ma insegnamenti che attraverso la lingua faccia comprendere meglio il territorio. Lo scopo primario è quello di cercare di mantenere attivi e vissuti i presidi di montagna, di cui la lingua è un aspetto complementare e dipendente.
Se vediamo quali sono le voci risparmio reali derivanti dall’eliminazione dei presidi scolastici e sanitari di montagna si scopre che in realtà sono cifre irrisorie nel breve periodo, ma che rischiano di dare il colpo di grazia alle comunità di montagna, con un ritorno economico negativo in termini di mancanza di prodotti di qualità che supererebbe di gran lunga i vantaggi per i costi correnti dello stato. Per non parlare dei costi morali…
Nell’ottica della salvaguardia delle lingue un ruolo importante lo può giocare la toponomastica. Come e quanto la salvaguardia della nomenclatura dei luoghi può aiutare una cultura minoritaria a sopravvivere?
Anche in questo caso spesso il problema viene travisato, per ignoranza o per malafede, in termini di sciovinismo linguistico o di etnicismo, mentre invece il problema reale è quello della toponomastica storica. Attraverso la sedimentazione dei nomi dei luoghi attraverso i molti secoli di storia, questi stessi luoghi hanno ottenuto una loro particolarità e specificità, una loro anima. I nomi dei luoghi narrano la loro destinazione funzionale e se si sovrappongono a questi dei nomi inventati, come è successo in Alto Adige, i luoghi non comunicano più niente.
Il toponimo storico dice sempre qualcosa, comunica un significato. Oggi la gente vive in una sorta di alienazione nella propria terra, nomina dei luoghi con denominazioni di cui non conosce il significato. Bisogna uscire dal dualismo etnicismo- sciovinismo linguistico e adottare un criterio, come ho detto, di toponomastica storica. La toponomastica non è legata ad un bilinguismo, ma è legata ad un significato che si è depositato in un luogo attraverso secoli di storia.
Dare un nome alle cose è il primo atto con cui l’umanità si identifica e si insedia in un luogo. Il toponimo storico ha un valore che va al di là dell’aspetto etnico- linguistico: è un qualcosa che riflette la storia di un insediamento. L’identità di un luogo è costruita dalla storia, non da una etnia o dalla lingua, frutto quindi di trasformazioni, mutazioni e negoziazioni continue fra popolazioni e territorio.
Che prospettive vedi per la conservazione della cultura di montagna, intesa nel senso più ampio possibile, oggi come oggi?
Per prima cosa io distinguo sempre tra le Alpi e le altre montagne perché le Alpi occupano una posizione strategica all’interno dell’Europa. Oggi, di fronte all’ondata euroscettica che si sta vivendo, in cui non si trovano più elementi che accomunino, e in cui si cercano ostinatamente solo quelli che dividono la storia delle Alpi può rappresentare un modello per il futuro. Le Alpi oggi possono tornare ad essere quello che molti studiosi hanno definito “magnifico laboratorio” per la convivenza pacifica di popoli e culture differenti. Possono diventare il laboratorio per una nuova Europa basata sul paradigma dell’unità nella diversità.
La crisi dell’Europa e dell’Euro dipende dal fatto che noi abbiamo una moneta unica, ma non abbiamo una politica monetaria unica, c’è solo una mera unione economica, ma a livello politico siamo ancora divisi dai nazionalismi. Le Alpi hanno sempre rappresentato uno spazio in cui differenti popolazioni hanno dialogato e collaborato tra loro senza che vi fossero confini fra di loro. Bisogna andare oltre il concetto di nazione, ormai vecchio e inutile.
Parlando altre volte hai citato più volte il modello della Confederazione Elvetica come l’equilibrio ideale tra diversità culturali: è un modello esportabile?
È chiaro che il modello elvetico non può essere esportato sic et simpliciter. Niente di così complesso può essere esportato. Sono fortemente contrario a coloro che affermavano che la democrazia potesse essere esportata. Ogni struttura sociale è figlia della cultura del tempo, quindi non si può semplicemente prendere il modello svizzero e copiarlo in un altro luogo tale e quale.
Il modello della Confederazione Elvetica è frutto di una storia lunga 700 anni di convivenza tra diversi che però avevano ben chiara l’esigenza di stabilire dei principi unitari di base, come quello della politica monetaria comune. I Cantoni svizzeri, pur avendo un'ampia capacita' di autogoverno in qualita' di Stati federati, delegano materie fondamentali come la moneta, le dogane, le poste alla Confederazione. In tal senso riescono a conciliare l'autonomia e gli interessi particolari dei territori con l'interesse generale della Comunita' allargata: un buon esempio di unita' nella diversità.

Il convegno UOMO E MONTAGNA, PAESAGGI IN TRASFORMAZIONE vedrà studiosi del calibro di Annibale Salsa, Roberto Mantovani, Ugo Morelli, Marco Avanzini, Geremia Gios, Giorgio Conti e molti altri, insieme ad amministratori e a persone che hanno deciso di fare ritorno alle attività produttive in montagna, confrontarsi sul tema dello spopolamento progressivo delle nostre valli. Il dibattito esaminerà le profonde trasformazioni che i cambiamenti in atto stanno producendo sulle nostre montagne; e tenterà di delineare possibili vie per invertire la tendenza in atto.
Il programma completo sul sito di TRA LE ROCCE E IL CIELO.


Riccardo Rella
riccardo_rella@yahoo.it

1 commento:

  1. Intervista ad Annibale Salsa. Il convegno UOMO E MONTAGNA, PAESAGGI IN TRASFORMAZIONE vedrà studiosi del calibro di Annibale Salsa, Roberto Mantovani, Ugo Morelli, Marco Avanzini, Geremia Gios, Giorgio Conti e molti altri, insieme ad amministratori e a persone che hanno deciso di fare ritorno alle attività produttive in montagna, confrontarsi sul tema dello spopolamento progressivo delle nostre valli. Il dibattito esaminerà le profonde trasformazioni che i cambiamenti in atto stanno producendo sulle nostre montagne; e tenterà di delineare possibili vie per invertire la tendenza in atto.

    RispondiElimina