lunedì 20 agosto 2012

I VILLAGGI DAI CAMINI SPENTI. INTERVISTA A ALBERTO FOLGHERAITER



Alberto Folgheraiter, da quale idea nasce il libro “I villaggi dei camini spenti”?
Ormai era una decina di anni che avevamo in programma di fare un reportage, vedere quale fosse la situazione della periferia del Trentino, alla luce dei cambiamenti avvenuti negli ultimi vent’anni. L’ultimo lavoro di questo tipo risaliva al 1966-1967 (Aldo Gorfer, “Solo il vento bussa alla porta”, con le fotografie di Flavio Faganello). I cambiamenti nel frattempo sono stati epocali, quindi c’era l’esigenza di tornare in quei luoghi a verificare la nuova situazione. Questo libro, edito da Curcu & Genovese, ha esaurito la prima edizione di 3500 copie in sei mesi. È già uscita la seconda edizione, ed è uno dei tre finalisti del premio “LEGGIMONTAGNA 2012” di Tolmezzo, la cui premiazione avverrà il 22 settembre.
C’è da dire che questo viaggio ha riservato più di una sorpresa: ne esce un quadro che talvolta rovescia gli stereotipi, dove la montagna e le vallate sono il “centro vivo” e la città risulta essere quasi periferia, meno dinamica, una comunità meno viva e poco partecipata.
In cosa si nota questa vivacità delle valli rispetto alle città?
Innanzi tutto si nota dal numero di gruppi di volontariato, che sono numerosi e, soprattutto, vivono di autofinanziamento, senza dipendere dalle poppe di “mamma Provincia”. A volte, nelle realtà cittadine il volontariato ha perso proprio questa natura disinteressata e si è trasformato in “volontariato prezzolato”. Anche nelle piccole cose, invece, le vallate offrono immagini di un associazionismo molto più genuino.
Che tipo di taglio stilistico ed editoriale avete deciso di dare a questo libro?
E’ un’inchiesta/reportage sul Trentino fra giornalismo e storia.
La cosa interessante è che la narrazione si sdoppia in due percorsi paralleli: quello delle parole, che ho scritto io e quello delle immagini, indispensabili e fondamentali, di Gianni Zotta. La stessa impaginazione, affidata a Fabio Monauni, si fa racconto. Abbiamo deciso di fissare le immagini nel momento stesso in cui raccoglievamo testimonianze e informazioni per scrivere i vari capitoli. In questo modo abbiamo fotografato la realtà delle valli nel momento stesso in cui ci si presentava. Anche per ancorare la ricerca a una data precisa, in modo che in futuro si possa riguardare a questo materiale essendo consapevoli del momento in cui è stato raccolto e pubblicato.
Però queste sorprese che avete incontrato lungo la strada, queste vallate vivaci, cozzano con il titolo che avete dato al libro: perché i camini sono spenti se le valli sono vive?
Lo spiego nella prefazione: questo titolo è un po’ ruffiano ma i camini spenti ci sono per davvero. I villaggi hanno tanti edifici abbandonati, tante stanze vuote, ma ci sono anche talune riscoperte e nuovi insediamenti.
Ad esempio, c’è una ricomposizione di nuclei familiari di immigrati che nelle periferie cittadine sarebbero “fuori posto”. Invece nelle comunità valligiane riescono a trovare una dimensione, una forma, seppur larvata e da sviluppare, di integrazione.

Questa presenza degli immigrati è un fenomeno incisivo? C’è effettivamente un ripopolamento dei paesi di montagna da parte di persone di origine straniera che decidono di andare ad abitare in quelle zone?
Non parlerei di ripopolamento, però certamente l’afflusso di immigrati stranieri in queste zone ha fornito un argine ad uno spopolamento che senza di loro sarebbe stato ben più ingente, forse insostenibile.
L’immagine che si ha comunemente delle zone di montagna è quella di una crisi basata soprattutto su spopolamento e abbandono. Quanto è vera e quanto è falsa questa descrizione e questa prospettiva?
Il fenomeno “Vendesi” è generalizzato e certamente propone l’immagine di una crisi, non solo di tipo economico. I cartelli delle agenzie immobiliari sono il paradigma di una crisi che ha radici lontane.  Questo fenomeno ha a che vedere con una polverizzazione derivante da passaggi ereditari, per cui alla fine i titolari di piccole porzioni non riescono a ricomporre le proprietà immobili e così si rischia l’abbandono.
In secondo luogo, il pendolarismo che degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso è diventato stanziale lungo il corso dell’Adige. Non c’è stata l’auspicata inversione di rotta, non si è avuto il ritorno alla montagna. Oggi il ritorno “alla terra dei Padri”  è un percorso che viene compiuto solo da ristretti gruppi di persone, gruppi sostanzialmente elitari per cultura e reddito. Penso, ad esempio, al libero professionista che si può stanziare in Vallarsa piuttosto che nella Valle di Terragnolo e, grazie a internet essere comunque in collegamento con Milano o con le grandi aziende industriali. Questa è una realtà “privilegiata”, non siamo ancora nella situazione di tele-working diffuso o cose di questo genere, per cui non è più la vicinanza al luogo di lavoro ma la qualità della vita a influenzare tali scelte di residenza. Credo, tuttavia, che arriverà presto il tempo in cui saranno operative le “autostrade informatiche” su tutto il Trentino. Questo potrà bloccare la cosiddetta “fuga dei cervelli” o addirittura facilitarne il ritorno, e potrebbe avere anche un effetto “tampone” sul deflusso di popolazione dalle aree montane. Tuttavia, sono convinto che questo fenomeno, se non elitario, rimarrà relegato a percentuali minime, in quanto non potrà mai riguardare la maggioranza di lavoratori che svolgono mansioni manuali. Per loro l’esigenza di raggiungere quotidianamente il posto di lavoro sarà ineludibile.
Quindi a livello di grandi numeri il declino della montagna è irreversibile?
Assolutamente, anche perché i grandi numeri non ci sono più: una volta c’era la famiglia allargata, c’erano frotte di bambini. Oggi con la famiglia mononucleare anche il flusso verso la montagna porta meno gente.
Tracciando un bilancio di questo vostro reportage-inchiesta, qual è il quadro?
Diciamo che esce un Trentino migliore di come, talvolta, è dipinto; un Trentino dinamico, con una società complessa e viva, solidale. Direi che viene fuori un bel Trentino. Un Trentino dove non hanno messo radici quei disvalori che negli ultimi vent’anni sembrano aver ipnotizzato larghe fasce di popolazione nel resto d’Italia.
Quali sono, a suo modo di vedere, le zone “virtuose” e quelle in crisi? Si possono individuare delle buone pratiche e, invece, dei modelli da non imitare?
La crisi è più acuta nei luoghi di estrema periferia, ma anche zone vicine al “centro” non sono in buone condizioni, come la Valle di Terragnolo. In parte, in alcuni casi, la Provincia ha paradossalmente messo troppi soldi, anestetizzando quello che può essere lo spirito del “fai da te”. Peraltro resistono problemi strutturali. Se hai l’esigenza di recarti ogni giorno sul posto di lavoro è difficile fare la scelta di essere pendolare a una cinquantina di chilometri di distanza da dove lavori, abitando in un paese di montagna. Anche la costruzione di un proprio nucleo familiare, che permetta di mettere radici, è più difficile in montagna che altrove. Se si sceglie, ad esempio, il mestiere del pastore o dell’agricoltore è difficile persino trovare una compagna per la vita.
Quindi, pur essendo il Trentino migliore di come è immaginato o descritto da taluni, resta comunque una prospettiva pessimista sul futuro delle valli e della montagna?
Sono i numeri che parlano: i centri urbani crescono, i paesi di montagna, le periferie si stanno spopolando. Comuni che oggi sono di 100 – 150 abitanti fino a cinquant’anni fa avevano 400-500 residenti. L’esodo non si è fermato. Nelle valli la popolazione diminuisce anche perché l’invecchiamento non è sufficientemente compensato da nuove presenze.
Qualche anno fa il Consiglio Comunale di Canal San Bovo aveva deciso di offrire un “premio di nuzialità” alle coppie che decidevano di andare ad abitare in quella zona: cinquemila euro, più mille euro per ogni neonato. Certamente mille euro non risolvono i problemi e cinquemila non risolvono un matrimonio, ma era un primo passo per incentivare i ritorni o comunque i nuovi arrivi. Restava e resta il problema che, per arrivare a Canal San Bovo da Trento c’è un’ora e mezza di automobile, quindi cinquemila euro da soli non bastano a incentivare l’immigrazione o il ritorno in valle.
Il ruolo della politica, in questo contesto, è soprattutto quello di far sì che in montagna resti chi ci ha sempre vissuto, fornendo le stesse garanzie e prospettive, gli stessi diritti, lo stesso accesso ai servizi di chi vive in città.
Poi una parte di questa crisi ha anche ragioni di altro genere. Per esempio, alcuni lavori, soprattutto manuali e di fatica, sono stati abbandonati con l’aumentato livello di istruzione. Probabilmente l’attuale crisi economica potrebbe spingere i giovani a un recupero di vecchi mestieri perché in altri campi il lavoro non c’è o si trova con fatica. In questo forse i ragazzi della montagna saranno avvantaggiati perché ancora abituati alla fatica, mentre quelli di città lo sono meno o non lo sono affatto.
Ludovico Rella
ludovico_rella@yahoo.it

Alberto Folgheraiter presenterà il suo libro "I villaggi dai camini spenti" giovedì 30 agosto presso il Museo della Civiltà Contadina di Riva di Vallarsa, insieme a Filippo Zolezzi, Maria Antonia (Tona) Sironi, Roberto Mantovani, Spiro Dalla Porta Xydias, Italo Zandonella Callegher

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