giovedì 30 agosto 2012

IDENTITA' E CONVIVENZA, UN DIALOGO CON FREDO VALLA, AUTORE DI "IL VENTO FA IL SUO GIRO"





Lei è nato in una zona abitata dalla minoranza etnica di lingua occitana. Cosa significa fare parte di una comunità linguistica così piccola?
La comunità occitana a livello europeo non è piccola, anzi è la comunità etnico- linguistica minoritaria più grande di tutte, con 10 milioni di parlanti. È piccola nella realtà italiana, in cui vi sono solo 180000 parlanti. Al momento della riscoperta della langue d’oc durante gli anni ’50 e ’60 del ‘900, per noi giovani di queste valli ha significato aprirsi al mondo, uscire dal locale per guardare il generale. Ha voluto dire appropriarsi di strumenti per comprendere meglio le dinamiche del mondo, i rapporti fra popoli, che al momento erano rapporti coloniali. Al tempo si discuteva molto di politica, quindi queste cose erano all’ordine del giorno. Oggi se ne parla molto meno e quando si parla di minoranze etnico- linguistiche si tende a parlare solo di tradizioni, di pastori e di greggi e pecore, che sono molto rispettabili ma non danno il polso della situazione.
Io penso che i popoli, le lingue abbiano un percorso, muoiono o rinascono come ad esempio l’ebraico in tempi recenti. Più spesso scompaiono: oggi non c’è più nessuno che parla la lingua dei sumeri o degli ittiti. Non è detto che le lingue debbano sopravvivere se i parlanti non vi si riconoscono, se non riescono ad esprimervi tutti i loro pensieri. Per quanto mi riguarda io farò di tutto perché l’occitano non scompaia, ma non so come andrà a finire. La sopravvivenza di una lingua non dipende dallo stato italiano o dalla politica mondiale, quanto dalla volontà dei parlanti di tale lingua avranno voglia e desiderio di conservare e promuovere la propria lingua. Non si dovrà trattare di una difesa fine a sé stessa, altrimenti non sarà altro che passatismo.
Una lingua deve servire a esprimere tutto l’arco di concetti possibili che la vita richiede: se l’occitano dovesse servire solo a parlare di pascoli e pecore, in quel momento sarà già una lingua morta, mentre se dovesse servire a scrivere una lettera d’amore, per parlare di filosofia, di fisica quantistica o di nuove tecnologie allora in quel momento si saprà che sopravvivrà di certo. Se una lingua dovesse diventare un modo per veicolare una difesa del passato, seppur rispettabile, a me farebbe pena. Io credo che una lingua serva o non serva. Certo, non intendo dire che possa servire come l’inglese o una lingua di interscambio mondiale, ma che possa esprimere tutti i concetti possibili, riuscendo a descrivere in un modo peculiare il mondo in cui viviamo.
Spesso il mondo delle minoranze è un mondo asfittico. Non sto parlando delle minoranze forti come possono essere i sud- tirolesi, ma di quei gruppi che si dedicano a catalogare i nomi tradizionali di tutti gli strumenti utilizzati nel passato nei vari mestieri e poi magari non sanno parlare la loro stessa lingua quando devono affrontare discussioni politiche o altro. Spesso si assiste anche a situazioni in cui sedicenti militanti e promotori del particolarismo linguistico si trovano a parlare la lingua dominante ai loro stessi figli. A quel punto la tutela della lingua diventa una battaglia persa in partenza.

Il suo film “Il vento fa il suo giro” affronta queste tematiche. Com’è nata l’idea di realizzare questo film?
“Il vento fa il suo giro” nasce da una storia vera, realmente accaduta qui a Ostana, e nasce dalla mia frequenza alla scuola di cinema di Ermanno Olmi “Ipotesi cinema” con sede a Bassano del Grappa. In questa scuola ho incontrato una serie di persone, tra cui Giorgio Diritti che mi propose di trarre un film da questa vicenda. Io avevo scritto un soggetto che poi è stato discusso in gruppo alla scuola e da cui è stato poi prodotto il film dopo una serie infinita di traversie, sia all’interno della scuola che nella ricerca di una produzione. Il copione è stato respinto molte volte perché i potenziali produttori si chiedevano chi potesse essere interessato ad un film dove si parlava dialetto e dove si parlava di capre e solo la grande determinazione del regista Giorgio Diritti ha permesso che il film alla fine sia stato prodotto.

Ne valeva la pena, visto che è un ottimo film, che non fa sconti a quelle che sono le problematiche della convivenza in un ambiente “chiuso” come la piccola comunità mostrata…
Il fatto che il film non faccia sconti è stato un altro dei problemi della produzione. Quando cercavamo piccoli fondi dalle comunità ci sentivamo rispondere “avete fatto un film che mette in cattiva luce la montagna”. Noi non volevamo fare un’agiografia della montagna, volevamo raccontare una storia. È stato come quando ho realizzato il mio film sulla Grande Guerra, per cui ho ricevuto una serie di critiche perché non avevo messo nella giusta luce le virtù eroiche dell’esercito italiano.
Noi eravamo interessanti unicamente al raccontare una storia che avesse una valenza paradigmatica e il fatto che il film sia stato fatto in occitano è stata una conseguenza diretta delle difficoltà di produzione incontrate: visto che nessuno lo voleva abbiamo deciso di farlo come volevamo noi.
Nel film nessun in realtà è buono così come nessuno in realtà è cattivo. Credo che il risultato sia una sorta di fotografia di come funzionano i rapporti sociali sia in una comunità piccola come quella di Ostana, sia in una realtà più grande come ad esempio il quartiere San Salvario a Torino, un quartiere con molti immigrati, in cui si formano dinamiche simili. È una visione che sovverte la concezione arcadica della montagna, popolata solo da uomini di buoni sentimenti. La montagna non è un luogo popolato da “buoni” perché il cielo è azzurro, l’aria buona e le montagne sono innevate, ma è un luogo come un altro, popolato da uomini e donne con tutti i loro problemi e le dinamiche sociali che ne conseguono. Forse il successo del film è dipeso anche dal fatto che abbiamo mostrato una problematica diffusa inserendola in una micro- comunità.
Forse il risultato è andato oltre le nostre intenzioni originali e anche personaggi che in fase di stesura della sceneggiatura erano più “cattivi”, come Emma ad esempio, la donna che si spacca le dita per accusare di violenza il francese, che una volta messi sullo schermo si sono molto “smussati” e umanizzati. In realtà anche Emma diventa un personaggio con una sua grandezza, disposta a soffrire sul proprio corpo per difendere un suo terreno. Di contro anche personaggi a prima vista postivi come il francese non escono completamente indenni. Certo, lui in fondo cerca la propria felicità, ma esclusivamente la propria, non coinvolgendo realmente la comunità del villaggio.

Il film si apre e si chiude con la frase del titolo “Il vento fa il suo giro”: qual è il significato di questa frase?
Il titolo è venuto da una serie di colloqui con un monaco per un intervista. Questa frase “Il vento fa il suo giro e tutte le cose prima o poi ritornano” è una frase si speranza, sulla ciclicità di tutte le cose. Come diceva mio nonno, i luoghi dove aveva abitato lui erano state “sette volte campo e sette volte prato”, per sottolineare come la gente fosse affluita e defluita dal paese. Certo, non tutte le cose seguono una ciclicità e una lingua che scompare è difficile che possa rinascere, salvo casi eccezionali come per la lingua ebraica.

Il titolo esprime anche una speranza per il ripopolamento delle terre occitane?
Certo! Se non avessimo speranze cosa faremmo? Non varrebbe nemmeno la pena di fare film… La speranza del cambiamento c’è, di invertire una rotta. Le zone occitane hanno visto un esodo che le alpi orientali, più ricche, non hanno mai conosciuto. Le alpi occidentali hanno visto uno spopolamento che è paragonabile, se non superiore alle partenze dal sud Italia negli anni del grande esodo. Nel mio paese c’erano 1200 abitanti iscritti all’anagrafe nel 1921, oggi ne ha circa 30 e durante tutti gli anni ’90 erano solo 10.
Per quanto riguarda il ripopolamento non potrà avere le forme di un tempo perché si viveva in condizioni di sovrappopolamento, con un sovraccarico sul territorio che non poteva garantirne il sostentamento. C’è stato un momento in cui pensavamo in un ritorno dei figli degli emigrati e qualche episodio c’è stato, però sembra che la tendenza del piccolo ripopolamento che stiamo vivendo sia legato alle esperienze di vita di persone che si muovono dalla città verso la montagna per dare un senso differente alla loro vita in un luogo dove la natura sia ancora natura. Questo tipo di popolamento della montagna è molto precario, perché bastano alcune difficoltà in più del preventivato, un lutto in famiglia o altro, per far cambiare idea a questi nuovi abitanti. A volte sono scelte un po’ velleitarie, fatte da gente che pensa di potersi inventare contadino dall’oggi al domani quasi come se il contadino fosse un non mestiere…
Ci sono però alcuni esempi positivi, ad esempio ad Ostana ora alla mia famiglia, che era l’unica del paese con bambini piccoli, se ne sono aggiunte altre due provenienti dalla città nel giugno dell’anno scorso. Questo è molto importante perché sono i bambini piccoli che possono dare un futuro al popolamento di una zona.
Se poi si volesse riportare qualche attività produttiva in quota, prima si dovrebbe attenuare il diritto di proprietà e fare una ricomposizione fondiaria. Qui sarebbe ampiamente possibile e doveroso riavviare un’attività agricola, perché fino a quando la montagna sarà popolata solo da intellettuali come posso essere io o da albergatori non si va da nessuna parte. Servono delle attività produttive per riportare gente in montagna, attività “normali”, un artigiano, un meccanico, ma per fare questo, come ho detto, bisognerebbe andare ad una ricomposizione fondiaria. Si dovrebbe stabilire che se non si utilizza un campo lo si perde, almeno dopo un po’ di tempo, 20- 30 anni, perché altrimenti si finisce a riproporre in eterno le situazioni mostrate nel film. Se si volesse portare del bestiame in quota non lo si potrebbe far pascolare nei campi di proprietà di famiglie che ne conservano gelosamente la proprietà, anche se magari non lo falciano da 30 anni. Bisognerebbe rimescolare le carte della proprietà fondiaria, però non c’è la volontà politica.
Questo è uno dei grossi paradossi dell’Italia, dove la montagna sembra non interessare a nessuno pur occupando un’estensione territoriale uguale se non superiore alle zone di mare, se si pensa che gli Appennini scendono fino in Calabria e ampie zone della Sicilia sono montagnose. Forse è anche perché la gente di montagna non è in grado di fare lobby, massa critica, almeno in queste zone, a differenza magari dell’Alto Adige o del Trentino. Il movimento occitano ha avuto una sua fase politica forte, inizialmente, con alcuni eletti in provincia e anche un rappresentante a Strasburgo, ma l’arrivo della Lega Nord con i suoi proclami “di pancia” ha distrutto tutto. Noi non abbiamo niente a che vedere con la Lega e non condividiamo assolutamente i suoi progetti politici.

Per concludere, quali sono i progetti a cui sta lavorando attualmente?
Attualmente sto finendo un altro film con Giorgio Diritti, ambientato in Amazzonia e per una parte in Trentino a San Romedio, che tratta di una donna alla ricerca di sé, anche se al momento non posso dirle niente di più. Sto lavorando anche ad un altro progetto, sempre con Giorgio Diritti che è un grande amico oltre che un collega, in cui collaboro nel ruolo di soggettista e sceneggiatore, su cui non posso anticipare nulla.
Come regista documentarista invece sto filmando una “favola documentario” sul primo trasvolatore delle Alpi del 1910, Jorge Chaves, peruviano naturalizzato francese. Poi ho un progetto con Reinhold Messner che vedrò proprio in questi giorni a Brunico e poi una serie di regie per produzioni di Pupi Avati.
E poi ho anche una famiglia, due figli da mantenere, un prato da falciare…

Grazie mille per l’intervista e arrivederci al festival!
Grazie a voi e a presto.

Riccardo Rella

riccardo_rella@yahoo.it

FREDO VALLA PRESENTERA' IL SUO FILM "IL VENTO FA IL SUO GIRO" ALLE 17, INTRODOTTO DA RENATO MORELLI, ALL'HOTEL "GENZIANELLA" DI BRUNI DI VALLARSA. INGRESSO LIBERO.

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