giovedì 11 luglio 2013

Evasione: l'alpinismo secondo Elio Orlandi




Io inizierei parlando di te e di quella che è la tua grande passione: l’alpinismo. Come ti sei avvicinato a questa attività?
Se dobbiamo parlare dei primordi, possiamo dire che mi sono avvicinato all’alpinismo in maniera un po’ “anomala”: venendo da una famiglia povera di montagna, la montagna l’ho imparata a vivere molto presto, e soprattutto attraverso i lavori di fatica, che poi mi hanno formato anche fisicamente, rendendomi pronto poi all’attività di scalata. La fienagione, la cura delle bestie, l’attività di sussistenza necessaria per una famiglia contadina. Si doveva vivere di montagna, tirarne fuori le risorse per vivere. Diciamo che queste sono le mie origini.
Poi è venuta l’adolescenza, la sete di conoscenza, il gruppo di amici, tutte cose che mi hanno spinto verso le pareti, l’alta montagna, l’alpinismo in senso stretto, quindi tutti quegli aspetti della montagna che vanno oltre la necessità per la sopravvivenza.
Questa sete di conoscenza col tempo mi ha portato a girare il mondo con la voglia di conoscerlo. Nella prima parte in assenza completa di soldi, addirittura le mie prime spedizioni in Patagonia le ho fatte aprendo mutui in banca, tanto forte era il desiderio di conoscere, di vedere. Poi è iniziata la mia attività imprenditoriale, che mi ha permesso di autofinanziarmi e di sostenere questa attività di alpinismo.
Ci tengo molto a dire che non ho mai accettato un contratto con uno sponsor, per me è molto importante vivere la “mia” montagna, dove “mia” è da intendersi in senso largo, senza condizionamenti di entrate economiche o di valori.



Mi interessa molto questo passaggio dalla montagna più “faticosa”, fatta di privazioni di lavoro, e questa sete di conoscenza che conduce all’alpinismo. Per te la tua attività alpinistica è una sorta di “altra faccia della medaglia” della montagna, oppure nasce da un desiderio di evasione dai lati negativi della montagna?
La parola “evasione” mi piace moltissimo, va bene. Anche oggi spesso vivo l’alpinismo come un’evasione. Evasione dalle responsabilità legate al lavoro, dalle fatiche quotidiane, dalle incombenze ed impegni burocratici.
Uno dei piaceri legati all’alpinismo è proprio che attraverso esso posso “staccare la spina”, conoscere il mondo, le tante sfaccettature della realtà della montagna, ma in più l’alpinismo fornisce anche risorse non solo fisiche, anche mentali e psicologiche, per affrontare i problemi nella vita comune.



Hai parlato anche del tuo lavoro, che ti permette di sostenere economicamente l’attività di alpinista. Che lavoro fai, e quali problemi di conciliare lavoro e alpinismo?
Io ho sempre voluto dare al mio alpinismo un’impostazione diversa, “normale”, che quindi non prevedendo sponsor, richiede anche più impegno nel coniugarla con un’attività che ti dia le risorse per vivere e per andare in montagna.
In questo ho cercato di darmi anche sotto il profilo lavorativo un collegamento con la “verticalità”, con la montagna: il mio lavoro sostanzialmente, oltre alla guida alpina, consiste nella messa in sicurezza delle pareti rocciose.
Ovviamente per il tipo di lavoro che facciamo, la parte burocratica è quella che crea più difficoltà, rende più oneroso il lavoro e, quindi, più difficile coniugarlo con l’alpinismo. La burocrazia si sta facendo asfissiante e questo non aiuta a tenere assieme lavoro e montagna.
Però la dimensione del lavoro, della responsabilità anche nei confronti della famiglia, è essenziale, permette di vivere anche le altre cose appieno: avere una propria professionalità permette di vivere la montagna senza condizionamenti né morali né materiali poi, per carità, per altri forse è giusto che accada visto che gli sponsor aiutano, ma se sei una persona sensibile alla responsabilità il condizionamento è inevitabile, e io questo non lo voglio.
Ritengo che l’alpinismo sia una delle ultime libertà che ci sono rimaste di vivere un’esperienza “in solitaria”, in maniera personale, in un’ottica, come si diceva prima, di “evasione” dal quotidiano. Per questo motivo credo che questa libertà non vada limitata, che si debba evitare ogni condizionamento. Poi per carità, si può vivere la montagna in molti modi e ognuno ha il suo.


Relativamente presto rispetto all’inizio della tua attività, ti sei avvicinato a destinazioni un po’ più insolite, come le Ande, aprendo fra l’altro molte vie nuove, sperimentando nuovi percorsi. Definiresti “pionieristico” il tuo alpinismo? La scoperta e la novità, l’imprevisto, sono ancora vivi nell’alpinismo, o si ha l’impressione che si sia “scoperto tutto”?
No, non si è scoperto tutto, non si finisce mai con la scoperta. Io vivo proprio l’alpinismo come fonte inesauribile di novità, di ricerca. Questo desiderio dell’ignoto credo che sia insito in ogni individuo, ogni persona che si mette in cerca.
Anche io sono passato e spesso ripasso dalle ripetizioni di percorsi miei, da scalate sulle orme di chi è venuto prima di me, soprattutto con grande rispetto perché le vie che conosciamo sono state aperte da chi ci ha fatto avvicinare all’alpinismo, dai nostri “maestri”. Sono loro che ci hanno insegnato ad entrare per gradi nella montagna e nell’alpinismo.
Io credo che non si debba mai dare confini o limiti a fantasia e immaginazione.



A questa edizione del Festival “Tra le rocce e il cielo” tu presenti la tua ultima “fatica” letteraria: “Il richiamo dei sogni. La montagna in punta di piedi”. Ecco, quando ho letto il titolo mi ha colpito soprattutto la seconda frase, perché sembra quasi un “programma” di un’altra idea di alpinismo. E’ così? Ci vuoi parlare della tua idea di alpinismo?
Guarda, in questo primo periodo dalla pubblicazione sono meravigliato da quante telefonate mi arrivano, ogni giorno, di persone che sono d’accordo su come scrivo di montagna e di alpinismo.
Io nel libro ho cercato di raccogliere vicende e racconti, ma non ho inteso fare un libro solo sulla vita di montagna o sull’esperienza della scalata. La più grande fatica e il mio obiettivo in questo libro era provare a portare a galla la mia interiorità. Le mie emozioni, i miei sentimenti, cercare di descriverli e di parlare di quelle piccole cose che fanno grande l’esperienza di montagna.
Intendiamoci, piccole cose che fanno grandi non solo le grandi scalate, i grandi viaggi, ma anche le esperienze più minute: l’ombra, le nebbie, le origini, una passeggiata nel bosco, cose umili ma importanti.
Credo e spero di aver creato qualcosa di diverso, di un po’ “fuori dalla norma”. Difatti sono felice quando questo libro viene definito un “quaderno o diario dell’anima”, come qualcuno ha fatto. Questo conferma l’idea che animava il libro quando ho pensato di scriverlo, e che è passata a chi lo ha letto.



Infine parliamo di un’altra tua attività e passione, che è collegata al tuo libro: quella del documentarista. Da quanto fai questa attività, come ti ci sei avvicinato e che cosa vuoi trasmettere con i tuoi documentari?
Diciamo che cerco di evitare di parlare solo dell’atto della scalata: non voglio descrivere il mio andare in vetta, la grande impresa, i grandi rischi. Sono cose che, anche nel nostro mondo, ormai sono scontate.
Ci sono anche dei canali televisivi che a volte trattano di alpinismo e non, ma alla fine non fanno altro che “gossip” o enfatizzazione sull’alpinismo e la sua storia.
Cerco soprattutto, come ho cercato anche nel libro, di far emergere le sensazioni, le emozioni, non tanto il grado di difficoltà o la bravura degli alpinisti.

Vuoi ripercorrere un po’ la tua attività attraverso qualche titolo che, a tuo parere, esprime meglio quello che cerchi di fare?
Nei miei documentari voglio ogni volta rappresentare una faccia diversa della montagna, esplorare tutte le sfaccettature di questo mondo.
Fra i primi potrei citare “Cuore di Ghiaccio” che cerca di trasmettere l’umanità, la crescita, la costruzione di valori che possono derivare anche da un’esperienza negativa, quando non tutto va per il verso giusto.
Poi c’è il documentario che ho fatto in ricordo di Cesarino Fava, in cui trasmetto la voglia di vivere e di conoscere di una persona che aveva già passato la soglia degli ottant’anni e che comunque era in grado di trascinare con sé altre persone.
Uno degli ultimi lavori che è “Bambini di Hushe”, invece è un’esortazione alla solidarietà, al fatto che essa può ancora essere un valore, attraverso questi villaggi del Karakorum che hanno un’incredibile necessità di aiuto, di sostegno.
Poi ho realizzato anche filmati che si concentrano sulla salita in vetta vera e propria, ma anche in questi casi dietro la salita c’è il racconto del rapporto umano e dei veri valori che la montagna è in grado di trasmettere.

Perfetto, io ti ringrazio per il tuo tempo, e ci vediamo al Festival!
Certamente, a presto!

 Ludovico Rella

ludovico_rella@yahoo.it

1 commento:

  1. Leggo solo ora questa bella intervista! Anch'io sono un appassionato di sport di montagna ed alpinismo, da qualche tempo ho anche aperto un blog. Trovi i contatti nel sito, casomai volessimo sentirci. Ciao, Fabrizio Vago :-)

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