lunedì 15 luglio 2013

Il ritorno alla lingua madre: Gavino Ledda

Cos’è per te la lingua?
La lingua materna è una cosa, il codice linguistico è un’altra. La lingua materna è la lingua di tua madre, dei tuoi avi. Il dialetto chi ce l’ha, lo parla e lo coltiva è fortunato.
In famiglia abbiamo sempre parlato in sardo, che per fortuna è ancora una lingua viva e parlata, e fino a 21 anni ho parlato sempre e solo in lingua materna. Io non sono andato a scuola e sono stato analfabeta fino a quell’età. Io ora posso dire che ho avuto la fortuna di rimanere analfabeta fino a 21 anni, può sembrare strano ma è così, perché ho potuto scolpire dentro di me la lingua materna, che è cresciuta assieme a me.
Il sardo ha un suono magico, è una lingua bellissima. Non avendo fatto le scuole ho vissuto visceralmente il mio rapporto con la lingua materna, cosa che forse non hanno potuto fare quelli che sono andati fin da bambini a scuola. Poi, quando a 21 anni ho avuto la possibilità di recuperare gli anni di scuola, mi è stato possibile riflettere sulla mia stessa lingua, osservarla da un’altra prospettiva.
La lingua materna, quando è vissuta nella carne e nello spirito, fortifica le lingue che poi si sovrappongono, come possono essere l’italiano o l’inglese. Le lingue imparate solo per poter comunicare come l’inglese, sono utili solo per poter comunicare con più persone, ma non sono lingue in cui potremo scrivere un romanzo, o narrare realmente la nostra vita. Non ci appartengono come può appartenerci solo la lingua materna. La lingua madre è la lingua dello spirito.



Che senso può avere tutelare un dialetto o una lingua “minoritaria” in un mondo in cui molte delle lingue nazionali stanno retrocedendo a favore di linguaggi di massa come l’inglese?
Prima di tutto bisogna pensare che i dialetti e le cosiddette lingue minoritarie sono stati giudicati marginali solo per le politiche nazionali. In realtà, come è ovvio, la cosiddetta lingua minoritaria è la lingua materna di una regione o di una popolazione e come tale è la lingua maggioritaria nell’area in cui è parlata e solo per via di politiche a mio parere senza capo né coda dello stato sono state marginalizzate.
Poi, come ho detto prima, solo potendo coltivare veramente la lingua materna, facendola crescere e vivendola nella propria carne ogni giorno si può, successivamente, aggiungere altri linguaggi al proprio bagaglio, ma chi non ha una lingua materna viva e vissuta non riuscirà mai ad esprimersi completamente.

La lingua materna, nel tuo caso il sardo, cosa può fare di più e meglio dell’italiano nel narrare i luoghi e le persone che lo parlano?
Dopo quarant’anni di pratica sto ancora imparando il sardo. È una lingua particolare, unica, come particolari e uniche sono molte altre lingue madri. Tutte le lingue materne, se parlate costantemente, in famiglia come nella vita di tutti i giorni, hanno una serie di costrutti, di concetti, di modi di dire che sono peculiari e difficilmente traducibili, se non impossibili da tradurre. Questi costrutti verbali sono il frutto di secoli di utilizzo di una lingua e come tali sono lo specchio dello spirito e della carne stessa di un popolo. In un certo senso la lingua è la storia culturale di un popolo.
Ad esempio Dante non scrive così bene solo perché è Dante, ma anche e soprattutto perché lui scrive in lingua materna. La lingua di Dante è carne, è sangue, è la sua placenta, se così si può dire, e questa è la sua grandezza.
Io sono quarant’anni che cerco di ricostruire le radici del sardo, e nei miei studi ho cercato di recuperare le opere quasi dimenticate di poeti che scrivevano nella lingua ancora non toscanizzata del 1000- 1100. La “toscanizzazione” ha cambiato molto il sardo, lasciando tracce indelebili, ma questo ho potuto scoprirlo solo dopo aver recuperato gli anni della mia formazione, quando ho potuto riflettere con gli strumenti della linguistica quello che avevo appreso con il corpo nei miei primi vent’anni di vita.



Dopo questa lunga opera di riscoperta cos’è per te il sardo?
Io in questi anni mi sono ricongiunto a quello che è lo spirito della Sardegna, un qualcosa che si era perso e si stava perdendo. È stato un po’ come ricongiungersi con mia madre, senza ovviamente dimenticare e ignorare che assieme a lei ci sono anche Dante, Leonardo da Vinci e tutti i grandi personaggi che hanno contribuito a creare e rafforzare l’italiano. Ma recuperare la propria lingua di origine è prima di tutto un ritorno alla famiglia, alla madre.
L’italiano nei secoli ha perso questo carattere materno, questa capacità di narrare la carne e il sangue di chi la parla. Tutte le lingue del mondo, le lingue davvero parlate, come quella di “Padre padrone” sono in grado di catturare quelli che sono i veri cambiamenti del mondo che viviamo. I dialetti sono la lingua di un popolo, sono il popolo stesso, e come tali sono l’unico modo per narrare nella sua autenticità il popolo stesso. Per me la lingua è l’anthropos  a tutto tondo, e solo i dialetti, le lingue veramente parlate, possono narrarlo e contenerlo interamente.

Potresti anticiparci qualcosa del tuo prossimo libro, che stai completando e che uscirà a breve? Sarà un saggio o un romanzo?
Sarà un poema. Il saggio è troppo facile, non che non sia uno strumento valido per carità, ma mi sono trovato molto più a mio agio a narrare le origini del sardo in forma poetica. Di più non posso dire adesso. Spero di poter portare l’anno prossimo al vostro Festival l’opera completata…

Grazie mille per il tuo tempo e spero che ci si possa vedere al Festival.
Grazie a voi e se tutto va bene ci vedremo in Vallarsa.

Riccardo Rella

riccardo_rella@yahoo.it

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