sabato 24 agosto 2013

Il ladino, per me, è il pane. Intervista a Rut Bernardi.

Rut Bernardi sabato 31 agosto sarà al Festival “Tra le Rocce e il Cielo” in Vallarsa. Parteciperà al convegno sulla letteratura in lingua madre, nella giornata che il festival della montagna dedica alle minoranze linguistiche.
Cosa rappresenta per lei il linguaggio? È solo un codice di comunicazione?
Il linguaggio per me  rappresenta molteplici valori e significati.
Innanzi tutto io considero linguaggio, naturalmente, la mia prima lingua: la lingua ladina. Questa é anzitutto lo strumento di lavoro nella mia vita. Io lavoro per e con il Ladino, occupandomi di linguistica e di letteratura. Se vogliamo, nella  mia esperienza potrei chiamare la lingua ladina “lingua del pane”: quotidiana ed identitaria. Ma è anche la lingua “del cuore”: io scrivo quasi  esclusivamente, soprattutto i testi poetici e letterarii, in Ladino, ad eccezione di quando vado a fare letture e presentazioni del mio lavoro, in quei casi ne faccio traduzione, affinchè la gente mi capisca ma anche facendo in modo che la mia forma di comunicazione acquisisca un valore metalinguistico. Alla luce di tutto  questo é chiaro che il linguaggio per me non rappresenta soltanto un codice di comunicazione.
Per comunicare molto spesso utilizzo anche il Tedesco o l’Italiano, che però non hanno per me gli stessi molteplici valori che ha il Ladino. La lingua madre è importante in quanto forma del pensiero, visione e immaginazione del mondo. Per me questa lingua è quella ladina, ed il bi e trilinguismo che si è venuto a creare nelle nostre valli ha permesso ad intere generazioni di poter possedere una moltiplicazione delle visioni del mondo e quindi una maggiore possibilità di comprensione della propria realtà e delle realtà altrui. Negli anni 60 molti genitori volevano che i loro figli imparassero come prima lingua il Tedesco, per paura che con il Ladino avrebbero poi faticato a comunicare, una volta usciti dalla loro valle. Ma molto spesso, se non nella quotidianità familiare almeno nella realtà di paese, i bambini apprendevano il Ladino. Così sono nate fortunate situazioni di bilinguismo e la lingua si è potuta mantenere, insieme con tutti i valori che rappresenta.


La lingua minoritaria e locale ha un legame con il luogo geografico in cui viene parlata? Può descriverci meglio la sua realtà locale ed il rapporto con le lingue di interscambio?  Naruralmente esiste un legame con il territorio, eccome, perchè la zona in cui si parla Ladino è geograficamente molto ben limitata: si tratta delle cinque vallate attorno alla grande montagna del Sella, che escono da questa come le cinque punte di una stella.  Queste cinque vallate sono la val Gardena, val Badia, Ampezzo, Fodom e val di Fassa, esse costituiscono il territorio preciso della lingua ladina, un confine geografico interconnesso con quello linguistico: da una casa all’altra non si parla più ladino. Una territorialità della lingua molto precisa legata ad un territorio definito e delimitato molto precisamente. Esiste un confine fisico, ecologico della lingua.
La mia realtà locale è a Chiusa, all’inizio della val Gardena. Qui parlo tutti i giorni il Tedesco innanzi tutto, mentre uso il Ladino per il lavoro letterario e poi all’università: a Bressanone, dove ci sono le mie studentesse ladine a cui insegno la scrittura della loro lingua. Lavoro col Ladino anche a Bolzano, facendo corsi di linguistica. Credo che la lingua minoritaria non crei alcun limite alla comunicazione in lingua nazionale, anzi, al contrario! Sostengo che la realtà della lingua di interscambio risulti arricchita dal poter padroneggiare più lingue. Noto spesso che i Ladini capiscono meglio la realtà dell’alto adige, proprio attraverso il bi e trilinguismo. Come trilingui possiamo conoscere ambedue gli ambienti, italiano e tedesco, sia dall’esterno che dall’interno. Linguisticamente e geograficamente noi stiamo proprio nel mezzo.

Come si è articolata la sua ricerca scientifica sul ladino?
Io sono arrivata allo studio scientifico del Ladino attraverso un percorso particolare. Ho studiato ad Innsbruck romanistica e letteratura francese. Poi un giorno mi è stato chiesto di fare una relazione in val Gardena e mi è stato chiesto di farla in Ladino. In quell’occasione mi si è aperto per la prima volta un mondo: in quel momento, in particolare, mi sono accorta di quanto fosse  più facile parlare nella propria lingua madre delle cose che si conoscono, esprimere sè stessi ed il priorpio ragionamento. Da quel giorno in poi ho scritto letteratura in Ladino ed  ho iniziato a lavorare per la lingua ladina, allora soprattutto per la sua linguistica. I primi 10 anni ho lavorato esclusivamente sulla lingua, mentre all’incirca negli ultimi 10 anni mi sono occupata e mi sto occupando di letteratura.
Quella era un po’ la mia prima fase del lavoro scientifico sulla lingua: l’elaborazione di dizionarii, di raccolte di nomi e della lingua scritta unificata. A queste cose ho lavorato per molti anni all’inizio del mio studio universitario sul Ladino.
Tutto questo, incredibilmente, è nato quasi per caso. Da piccola o da giovane nessuno mi aveva mai detto: - tu sei ladina, dovresti fare qualcosa in Ladino -  perchè a quei tempi la nostra lingua non era considerata di prestigio. Al giorno d’oggi l’atteggiamento è cambiato moltissimo, i giovani sono molto più consapevoli di essere Ladini, più coscienti della loro identità linguistica. Grazie a questo fortunato cambio di mentalità è stato possibile introdurla come oggetto e soggetto di studi universitari.

Come si può studiare a livello universitario una lingua che a tutt’oggi è ancora largamente orale?
All’università fino al giorno d’oggi, e proprio a causa di una tendenza all’oralità, si è fatto molto più studio di linguistica, quindi studio sulla lingua. Molto noti ed importanti sono stati i corsi di toponomastica, che è stata particolarmente coltivata, insieme alla storia della lingua ed alla storia della cultura ladine. A Bressanone c’è il professore Paul Videsott che ha avuto a cuore questi argomenti ed ha permesso di sviluppare al meglio questo orientamento degli studi. Oggi però, pian piano, è stato possibile allargare gli orizzonti nello studio universitario del Ladino. All’Università Libera di Bolzano, anche perchè io l’ho promosso, è stato realizzato un progetto di “Storia della Lettteratura Ladina”.
Trovo che sia molto importante lo studio della “catena delle parole”, ovvero il modo in cui le parole si connettono fra loro nella creazione del discorso scritto, che manifesta il formularsi della lingua. Credo che solo attraverso lo studio della letteratura sia possibile vedere il funzionamento del Ladino e si riesca così a comprenderlo totalmente. Per queste ragioni ho insistito molto affinchè fosse creato questo progetto di studio, ricerca ed insegnamento letterario Ladino e non semplicemente linguistico.
A proposito del progetto letterario è però necessario fare un po’ di attenzione circa ciò che chiamiamo letteratura, perchè della produzione scritta in lingua ladina fanno parte molti testi generalmente non considerati letteratura nelle cosidette “grandi letterature” europee. Per quanto riguarda i primi cento anni di scrittura in Ladino, all’incirca tra 1800 e 1900, consideriamo infatti letteratura testi come prediche, giubilei di messe novelle, poesie d’occasione e letteratura sacra. Sono testi storici, documentazioni di una produzione scritta che possiamo nomenclare “letteratura” appunto in virtù del loro valore documentario. Sarà solo con le produzioni posteriori alla seconda guerra mondiale che si potrà parlare anche per il Ladino di letteratura in senso stretto,come la intendiamo generlamente oggi, come l’insieme della produzione letteraria in poesia e prosa: sonetti, racconti, romanzi, testi teatrali e così via.

Che senso ha preservare un idioma locale come può essere un dialetto o una lingua cosiddetta minoritaria in un mondo in cui le stesse lingue nazionali appaiono essere sempre più inutili, schiacciate dalla necessità di poter comunicare con il mondo intero?
Per prima cosa vorrei sottolineare che non mi piace chiamare la mia lingua madre “minoritaria” perchè non è “minore”, rispetto alle lingue che hanno un più ampio numero di parlanti. Siamo soltanto in meno persone a conoscerla e parlarla: é una lingua “meno diffusa”, non una lingua minore, preferisco parlarne in questi termini. Dicendovi questo, faccio subito notare quanto per me sia una cosa importante, perchè, come ho già detto, la lingua che parliamo determina la nostra visione del mondo. Quando si parla in un’altra lingua, si ha tutta un’altra visione del mondo. Per questo è molto importante che una lingua possa sopravvivere in ogni sua dimensione, quotidiana e non, interamente. E’ questa sopravvivenza in virtù della forma mentale che determina, ad avere così tanto  valore ed a restituirci il senso del mantenimento in vita di una lingua: ogni persona vede il mondo attraverso la sua lingua. Noi ladini abbiamo forse più visioni del mondo e più immaginazioni del mondo di una persona che parla solo un’unica lingua “globale”, come si potrebbe pensare, attraverso uno stereotipo, dell’”americano medio”. Ci sono molti popoli al mondo che parlano in più lingue: una lingua madre, una lingua di interscambio nazionale, una lingua straniera per comunicare globalmente. Queste persone sono molto più sveglie, attraverso la ricchezza di visioni del mondo che il padroneggiare più lingue alla volta può regalare. Sono stati sperimentati recentemente alcuni studi di neuroscienza cognitiva, anche nel polo universitario di Bressanone. Studiando i bambini bi o trilingui e si è visto come questi siano molto precoci e molto più svelti nell’apprendimento. Comprendono le cose più velocemente grazie ad una mente arricchita dal possesso di più idiomi.
Il senso del preservare la nostra lingua sta in questi arricchimenti cognitivi, ma non solo, perchè si tratta anche, banalmente e più in generale, di un arricchimento in erudizione: permette la lettura di più romanzi, più poesie e racconti, la fruizione del teatro.
Molteplici ragioni incoraggiano a preservare i propri idiomi e dialetti, e nessuna di queste è in conflitto con la comunicazione globale, anche se talvolta quest’ultima appaia minacciare questo sforzo.


Nella sua produzione letteraria cosa cerca di descrivere? Cosa presenterà al Festival?
Nella mia produzione letteraria io trovo, più che cercare, perché spesso la mia tematica principale si manifesta involontariamente ed è proprio la Lingua, anche come tematica dei miei scritti poetici. Questo forse avviene a causa della mia formazione di studiosa e di ricercatrice in linguistica e letteratura.
Spesso cerco di descrivere gli animali, perchè una mia grande passione al di fuori degli interessi professionali sono proprio loro. Io amo molto gli animali. Inoltre ho scritto molti giochi di parole, perchè il ladino si presta molto bene a giocare con il suono del suo parlato e perchè mi diverto particolarmente con giochi linguistico-matematici. Il ladino ha molte parole corte, accorciate, soprattutto rispetto al tedesco. Questi giochi di parole sono molto indicati per le letture al di fuori del territorio ladino, perchè le persone anche se non capiscono il significato si educano e si divertono al suono della lingua, si abituano alla bella musicalità della lingua ladina.
Al festival “tra le rocce e il cielo" porterò soprattuto questi giochi di parole, questa parte giocosa della mia produzione, perchè funzionano molto bene con il pubblico. E’ un modo per tenere vivo l’interesse della platea, molto spesso curiosa di sapere com’è che suona questo Gardenese. Porterò poi anche qualche componimento, diciamo più serio, ma preferisco non scoprire tutte le mie carte e giocare anche sulla sorpresa!


Al Festival Rut Bernardi parteciperà al convegno LE PAROLE DEL CUORE, Lingue e appartenenza nella letteratura delle Minoranze con specialisti di linguistica ed organizzatori di premi letterari sul tema della scrittura in lingua madre. In collaborazione con il concorso Mendranzes-n-poejia, e con il Premio Ostana, scritture in lingua madre.

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