lunedì 17 agosto 2015

Alpinismo e solidarietà #3: intervista a Omar Oprandi.

Nato a S. Pellegrino Terme in provincia di Bergamo, Omar è cresciuto con la passione per la montagna trasmessa dalla famiglia, che lo ha portato a diciott'anni ad entrare nel Soccorso Alpino Militare, diventandone istruttore. E' alpinista con Montura, scialpinista e guida alpina. Il suo lavoro e la sua passione lo hanno portato in giro per l'Italia e il mondo, dalle Alpi Orobie al Monte Bianco, fino all'Himalaya.

Omar Oprandi (Fonte: http://www.omaroprandi.it/).
Sul tuo sito internet c’è scritto “solo se faccio imparo”: in che modo questa massima guida la tua attività?
Io mi considero una persona pratica: ho bisogno di mettere le mani in quello che faccio, applicarmi direttamente. Come i nodi: se leggo un manuale di nodi, o se guardo semplicemente qualcuno che mi spiega come farli, io dimenticherò. Solo se mi metto in prima persona, facendo e disfacendo i nodi, sbagliando e rimediando, imparerò veramente. Questo mi piace della montagna: è un incontro diretto, pratico, senza mediazioni o falsità. In montagna si salutano tutti, ma non si parla a sproposito perché bisogna risparmiare il fiato. In montagna il cielo è meraviglioso, ma si deve anche sapere che può mutare in un secondo, e con lui non si deve scherzare. In montagna si deve bastare a se stessi, ma bisogna anche essere presenti a se stessi, sempre, ed essere sempre nel momento e nel luogo in cui ti trovi, senza distrazioni.

Come hai iniziato ad andare in montagna? Com’è nata la passione per la montagna?
è una passione iniziata in famiglia: è stato mio padre il primo a portarmi regolarmente in montagna. Io sono bergamasco di origine quindi le mie montagne sono all’inizio state le Alpi Orobie, al confine con la Valtellina. Seguendo i passi di mio padre mi è venuta la passione e la curiosità della vetta, la voglia di scoprire com’è il mondo da lassù, cosa c’è dall’altro lato. Come molti nel mio caso, ho deciso anche di intraprendere il percorso “accademico” dell’alpinismo, fino a diventare guida alpina. Questo per me è stata una delle massime aspirazioni, essere riconosciuto nel tuo ruolo e nel tuo aiuto di insegnante nei confronti di altri alpinisti, essere la persona che spiega i pericoli e le gioie della spedizione. Da allora quella passione non mi ha più lasciato, anzi: da allora mi sono spinto a cercare montagne sempre più alte, in Italia come il Monte Bianco, fino ad arrivare in Himalaya.

Parlami di come hai scoperto l’Himalaya e di cosa ti lega a quei luoghi.
La mia passione di andare sempre più in alto mi ha spinto quasi naturalmente, a un certo punto, verso l’Himalaya, per visitare quelle montagne imponenti e quelle cime così famose, leggendarie. La mia prima spedizione è stata l’Ama Dablam, una montagna di 6812 nella valle del Khumbu, in Nepal. Non volevo iniziare con un ottomila, e l’Ama Dablam è una montagna che, pur essendo più bassa, è tecnicamente molto difficile, quindi ha rappresentato per me una bella sfida. Più ancora della vetta, però, mi sono rimasti dentro il “prima” e il “dopo” della spedizione: la gente, le persone, la loro cultura.

Ama Dablam (6812 metri).
Cosa ti è rimasto particolarmente impresso?
Prima di tutto un forte senso di spiritualità. Lì ogni persona ha una forte fede, un profondo misticismo riguardo al modo che le circonda, anche se questa fede viene declinata in molti modi diversi: il Nepal, come si sa, è fatto da molte etnie, molte religioni e culture. Poi un grande senso di semplicità e di gioia dalle piccole cose belle e importanti della vita. Cose che da noi si danno ormai per scontate, o a cui non si pensa nemmeno, lì sono ragioni di gioia, festa e condivisione. Per me andare lì è stato come andare indietro nel tempo, in un passato in cui la natura e i suoi movimenti erano parte della nostra vita, parte integrante del nostro quotidiano. Questo mi ha spinto poi a tornare lì tre anni dopo, con la “scusa” di una spedizione sul Cho Oyu. In quel caso mi è andata male: mi è venuto un edema in alta quota e ce l’ho fatta con un po’ di fortuna, diciamo.

Cho Oyu (8201 metri).

Come hai reagito al terremoto del Nepal?
Il terremoto mi ha scosso: mi sono tornate subito in mente le memorie delle spedizioni che ho fatto, le persone che ho incontrato, e le sensazioni che ho raccolto quando sono stato lì, anche se distanti nel tempo. In più, mi hanno colpito le morti di amici che conoscevo ed erano lì: penso a Oskar Piazza, alpinista con Montura come me, con cui abbiamo fatto i corsi guida assieme, con cui eravamo “compagni di banco”, che in Nepal ha anche dato una mano alle popolazioni locali con progetti di solidarietà.

Oskar Piazza (1960-2015) (fonte: http://www.montura.it/it/persone/discipline/alpinismo/oskar-piazza.php).
Che consiglio daresti a chi volesse contribuire alla popolazione del Nepal?
Come ho detto prima, sono una persona pratica, che vuole sporcarsi le mani: potessi, andrei lì a dare una mano in prima persona, andando sul campo, purtroppo il mio lavoro non lo permette. Il consiglio che posso dare è di contribuire sicuramente, con delle donazioni o in altro modo, ma scegliendo realtà che siano già sul campo, che conoscano la situazione locale. Troppo spesso in questi casi le emozioni hanno la meglio e si raccolgono soldi che però non vengono usati efficacemente perché chi li usa non conosce il territorio a sufficienza.

Qual è per te il rapporto fra alpinismo e solidarietà?

Io sento forte la presenza di una “solidarietà di montagna”: è quasi magico come, più si sale in alto, più ci si avvicina alla vetta, e più diventiamo uguali, sullo stesso piano. Dai gesti più semplici, come il saluto, che in alta quota si dà a tutti a prescindere dal fatto che ci si conosca o meno, a gesti più impegnativi come il soccorso. In montagna, specialmente in spedizione, si è sempre “in cordata”, anche con chi non è nella nostra spedizione: se qualcuno cade, se ha difficoltà, se è in pericolo si interviene, non si sta in disparte e non si mettono i propri obiettivi prima della vita e di qualcun altro. Essere in cordata vuol dire riconoscere questo, diventare un tutt’uno, basato sulla fiducia reciproca. Poi, certo, ci sono persone che pagano un sacco di soldi, salgono per fama o tornaconto, e può succedere che tirino dritto e non si curino nemmeno dei loro compagni di spedizione, ma per me quello non è alpinismo. Alpinisti per me sono, ad esempio, Simone Moro o Silvio “Gnaro” Mondinelli, che hanno abbandonato le loro spedizioni senza esitare, quando dei loro compagni erano in difficoltà. Quest’idea della solidarietà di montagna è quella che mi ha portato ad entrare nel soccorso alpino, di cui sono membro da quando avevo diciott’anni.

Con Omar Oprandi, Kurt Diemberger, Mario Corradini e Luciano Rocchetti parleremo del terremoto del Nepal, di alpinismo e solidarietà, la sera di sabato 22 agosto, alle ore 21:00, al tendone di Riva di Vallarsa. Coordineranno la serata Roberto Mantovani e Filippo Zolezzi. Arrivederci in Vallarsa.


Pubblicato da Ludovico Rella ludovico_rella@yahoo.it

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