lunedì 17 agosto 2015

La sofferenza mentale nella Grande Guerra: "esistenze imbruttite o devastate dal conflitto". Intervista Andrea Scartabellati



Intervista a Andrea Scartabellati

Andrea Scartabellati, di famiglia operaia, ha studiato Storia (Università di Trieste, 1999) e Scienze Antropologiche ed Etnologiche (Università di Milano Bicocca, 2014). Con una borsa pubblica ha svolto un semestre di perfezionamento all’estero (Université Paris X/Nanterre, 2000), conseguendo il dottorato di ricerca in Storia sociale presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia (2005). È autore e curatore di saggi e monografie dedicati alla storia della povertà e della follia, tra cui: L’umanità inutile (Angeli 2001), Intellettuali nel conflitto (Goliardica 2003), Prometeo inquieto. Trieste 1855-1937 (Aracne 2006), Dalle trincee al manicomio (Valerio, 2008), Fronti interni (Esi 2014).

Quando ha cominciato a interessarsi della sofferenza mentale dei soldati della Prima Guerra Mondiale?

Ho avuto la fortuna e la possibilità di studiare storia a Trieste, un contesto culturale e cittadino che – è forse superfluo dirlo – grazie all’esperienza basagliana (Franco Basaglia, lo psichiatrico ispiratore della legge 180 che portò alla chiusura dei manicomi, ndr)  ha maturato una straordinaria e peculiare sensibilità per i temi della follia. Sensibilità, grazie alla mia qualità di “forestiero”, avvertita, apprezzata ed interiorizzata con maggior consapevolezza rispetto ai residenti (diciamo così).
L’insegnamento e lo studio con storiche come Simonetta Ortaggi e Bruna Bianchi, prima con la tesi di laurea e poi di dottorato, mi hanno sollecitato ad approfondire le tematiche sociali inerenti la storia della Grande guerra. Da qui, in breve, l’incontro con i temi della follia bellica e, vorrei sottolineare, con gli archivi della follia. Un incontro non solo intellettuale, ma direi soprattutto emozionale, al cospetto di centinaia e centinaia di cartelle cliniche traccia di esistenze imbruttite o devastate dal conflitto. 

Che cos’è lo “shell shock”?

Lo shell shock è il termine medico con cui la medicina psichiatrica anglosassone durante il corso del conflitto intese descrivere ed esplicare – avendo alle spalle una sintomatica epistemologia – una serie di reazioni dei soldati sottoposti al bombardamento continuo di artiglierie micidiali, via via perfezionate nella loro capacità di produrre stragi.
Si tratta di una categoria nosografica sfuggente, che come storici dobbiamo storicizzare e leggere alla luce del know how delle differenti medicine nazionali. Un quadro diagnostico non privo di confusioni o ambiguità più o meno manipolabili, con fini spesso contrastanti, da medici e pazienti proprio in ragione della sua necessità di descrivere un repertorio di situazioni anomale differenti.
Com’è noto, lo shell shock è un po’ la matrice del moderno Post Traumatic Stress Disorder, apparso (scoperto/riscoperto/inventato/reinventato?) con la guerra del Vietnam.
A tacere dello sfuggente contenuto stricto sensu medico, lo shell shock è, tuttavia, tornato grandemente utile a storici e sociologi come sorta di metafora della Prima guerra mondiale nella sua qualità di primo conflitto industriale e dei materiali della storia. Lo shell shock ha rappresentato, se mi si passa lo schematismo, il riflesso e l’incarnazione concreta, nei corpi e nella mente dei soldati, dell’inquietante e nello stesso tempo affascinante erompere della modernità applicata alle tecnologie di morte.

Che entità ha avuto il fenomeno della sofferenza mentale dei soldati impegnati nella Grande Guerra?

In un piccolo libretto pubblicato anni fa, Carlo Cipolla, storico di prima grandezza, commentando alcuni dati statistici, affermò che i soli indici certi erano le date… Ciò premesso, la storiografia ha oggi raggiunto un consenso di massima su queste cifre: si parla di 40.000 individui sofferenti per l’Italia, 300.000 per la Francia, 400.000 per la Germania e tra gli 80.000 ed i 200.000 (sic!) per la Gran Bretagna.
A proposito del caso italiano – modesto nei numeri – vorrei aggiungere due note, la prima di carattere interpretativo, la seconda quantitativa. Innanzi tutto, c’è stata la tendenza anche per ragioni retoriche inerenti la costruzione dei testi storiografici, a far dipendere eccessivamente i disturbi dalle modalità moderne del guerreggiare (bombardamenti, le fatiche da talpa della vita di trincea, tragici eventi rivelatori come i seppellimenti temporanei, l’odore acre dei corpi bruciati, la vista di amici e compagni smembrati, ecc.). Tipologie d’innesco dei disturbi (mi si passi l’espressione) che, in realtà, coprono solo in parte, e forse nemmeno la metà dei casi all’epoca riscontrati. In secondo luogo è utile rammentare, senza per questo voler sminuire le sofferenze e la portata dell’episodio dei folli di guerra – veri e propri mutilati dell’esistenza – la reale dimensione della vicenda. I matti rappresentarono per le autorità mediche, militari e politiche, un problema non particolarmente pressante. La follia non coinvolse che lo 0,73% degli arruolati nelle forze armate, e lo 0,79% degli incorporati nel Regio Esercito. Rispetto ai 517/564.000 morti e dispersi e ai 950/1.050.000 feriti, i 40.000 folli di guerra apparvero una questione secondaria, in Italia gestita dalla psichiatria militare e civile senza il ricorso a misure straordinarie, e prescindendo dalla rivisitazione dei consolidati paradigmi della cultura psichiatrica.


Come fu trattata dai medici militari e come fu considerata dagli ufficiali militari?

Limiterei la risposta al contesto nazionale, che conosco meglio e di cui ho esperienza di ricerca diretta. Le sindromi belliche furono trattate dai medici militari né più né meno che alla stregua delle follie registrabili nella vita civile. Certo non mancarono osservazioni e proposte innovative per un contesto ancora fortemente intriso d’influenze evoluzioniste alla Haeckel e dal lessico antropologico dei vari Enrico Ferri, Cesare Lombroso ed Enrico Morselli. Tuttavia, esse restarono voci isolate e marginali. Individuazione preventiva, controllo e custodia dei folli rimasero gli aspetti dirimenti l’impegno psichiatrico, mentre l’intervento terapeutico, nella cornice di un disegno curativo antecedente gli sviluppi della psicofarmacologia e delle terapie da shock, risultava estemporaneo, affidato a prassi inefficaci quali la forzata tranquillità della segregazione del malato, i bagni prolungati, la somministrazione di olio di ricino, l’utilizzo di unguenti e tinture di origine vegetale, docce di acqua gelata alternate a quella calda…
Da parte degli ufficiali superiori alieni di nozioni psichiatriche, la follia fu vista soprattutto attraverso la lente della simulazione e del disimpegno dai doveri patriottici. Un tentativo del soldato, da reprimere duramente, di fuggire i pericoli del conflitto. Per ironia della storia, questa lettura del fenomeno sembrerebbe dar ragione agli storici di oggi i quali, indagando il tema del dissenso, intravvedono nella follia bellica senz’altra specificazione proprio un rifiuto degli obblighi militari.
Nel quadro complessivo dei rapporti tra ufficialità e truppa, anche la follia di guerra può essere interpretata come l’ennesimo capitolo di quella pervicace estraneità culturale che rese difficoltosi, se non impraticabili, il dialogo e la condivisione del significato bellico tra élite militare e un esercito formato dall’irreggimentazione prevalente di contadini.

Che impatto ebbe quel fenomeno sul successivo sviluppo della psicanalisi e della psichiatria?

Paradossalmente nella guerra la psicoanalisi vide una sorta di conferma ex-post rispetto a quanto da Freud e dai suoi seguaci sostenuto e ribadito fin dal primo Novecento in tema di trauma ed istinti di violenza e morte. Si trattò, naturalmente, di una lettura interessata, non priva di credibilità. Bisognerebbe però riformulare la risposta osservando la fortuna della psicoanalisi nei differenti contesti nazionali, iniziando da quello italiano particolarmente sordo al verbo psicoanalitico.
Per quanto riguarda la psichiatria vale, a grandi linee, lo stesso discorso. Mentre in Gran Bretagna, ed in parte in Francia e Germania, la disciplina seppe con maggior consapevolezza far tesoro delle esperienze belliche, in Italia, ennesima ironia, la fortuna perdurante goduta presso i circoli medici dall’evoluzionismo antropologico e da un rigido biologismo-organicistico, si rivelò un freno solo in parte aggirato dalle nuove leve psichiatriche. Le sindromi belliche vennero lette e liquidate all’interno dei paradigmi prebellici. È sintomatico che il volume di psichiatria sul quale generazioni di medici si formeranno, il “Trattato delle malattie mentali” di Tanzi e Lugaro, potesse affermare nell’edizione del 1923, sulla scorta della letteratura di patologia bellica passata in rassegna, l’inesistenza di psicosi generate dal conflitto.

Nel 1918 Ernst Simmel scrisse “Nevrosi di guerra e trauma psicologico” dove, coerentemente con le interpretazioni psicanalitiche del tempo, la nevrosi di guerra veniva spiegata come una sorta di “diserzione inconsapevole”. Che conseguenze pratiche e terapeutiche ebbe questa interpretazione?

Quella di Ernst Simmel, va ricordato innanzi tutto, fu una figura atipica in Germania, non esemplificativa della psichiatria tedesca. Ciò detto, l’interpretazione di Simmel rammentata, insieme a pagine di Freud, Ferenczi, Abraham (e altri), è genealogicamente a monte di una lettura del fenomeno della patologie di origine bellica tanto trascurata nel dominio medico quanto, probabilmente, sopravvalutata in ambito storiografico italiano sulla scia del volume di Leed, No Man’s Land (1979).
Il tema della diserzione inconsapevole indirizza il focus del discorso verso un territorio minato (è proprio il caso di dire!) dove simulazione, strategie dei soldati di determinare il proprio destino nelle condizioni date, strategie di controllo e custodia della psichiatria, malattia, dissenso alla guerra e desiderio di sfuggirle s’intrecciano in matasse difficilmente sbrogliabili. Matasse interpretative e di significati che solo il confronto cauto e diretto con la documentazione individuale (cartelle e diari clinici in primis) permette di affrontare e sciogliere, al di fuori sia di poietiche del rifiuto collettivo più vive nell’immaginazione degli studiosi che effettive all’epoca, sia di sineddoche trasfiguranti in forme elementari casi originali nella controprova di esperienze esperite massivamente.

A che punto è la ricerca storica in Italia su questo tema rispetto agli altri paesi?
Cosa rimane ancora da studiare del fenomeno?

La ricerca italiana paga lo scotto della lingua, risultando sostanzialmente gregaria a livello di riconoscimento internazionale. Peccato doppio poiché – e lo dico non volendo fare della retorica nazionalista – un confronto tra la saggistica italiana e quella internazionale dimostra come la prima abbia in termini di analisi e disponibilità delle fonti, capacità interpretative e aggiornamento metodologico degli studiosi, ben poco da invidiare alla seconda. Anzi, in qualche modo il clima intellettuale creato da noi dall’esperienza basagliana ha avuto e continua ad avere ancora oggi, specie per quanto riguarda i giovani storici che si affacciano alla ricerca partendo dalla tesi di laurea, un effetto “fertilizzante”.
Cosa rimane da studiare del fenomeno? Molto direi, e non solo a livello quantitativo (detto en passant: le esperienze manicomiali del meridione, durante e dopo la guerra, risultano salvo rare ed ottime eccezioni ancora poco indagate). Più in generale ritengo per la storiografia italiana maturo il tempo per un arricchimento paradigmatico e metodologico, muovendo da un’attenzione non superficiale, estemporanea o esclusivamente terminologica alle riflessioni dell’antropologia (culturale, sociale) contemporanea.
Ritornando alla lettura delle fonti, e lontani da ogni inclinazione romanzata – il tema della follia è tradizionalmente un invito a nozze in questo senso… – credo abbiamo come storici la necessità, a livello di ricerca, di superare il meccanicismo interpretativo che ha guidato la nostra comprensione degli stati patologici, per un confronto più meditato con la dimensione esistenziale degli uomini in guerra impazziti (o creduti tali), recuperandone le vicissitudini, i valori, le conoscenze, le idiosincrasie, le esperienze ed i legami col mondo del di fuori militare.
Decostruire, verificare e riformulare, con una visione più complessa e articolata dei temi del rifiuto e del dissenso alla guerra, le poietiche attraverso le quali gli storici hanno narrato fino ad oggi delle trasformazioni dei mondi mentali collettivi muovendo dalle situazioni individuali rappresentate dalle esperienze borderline vissute dei folli di guerra, è il compito difficile e insieme affascinante che potremmo proporci.


Nicola Spagnolli



Scartabellati interverrà alla conferenza SOPRAVVIVERE AL TRAUMA. LA SOFFERENZA MENTALE DALLA GRANDE GUERRA AI CONFLITTI D’OGGI che si terrà SABATO 22 AGOSTO alle ore 15 AL TEATRO DI S. ANNA.


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