martedì 28 giugno 2016

Donna e comunità ladina, tra tradizione e contemporaneità

Intervista a Olimpia Rasom


Il lavoro di Gana Magazine racconta la donna e la donna ladina con modernità ed entusiasmo. La redazione sceglie la promozione e non la tutela della lingua e della cultura ladina con un approccio nuovo e fresco.

Non capita spesso di parlare con una persona e di comprenderne subito la passione e la motivazione che la muove. Chiacchierando con Olimpia Rasom, redattrice di Gana, la passione e la motivazione viene subito fuori, è centrale nel suo impegno, è determinante nelle sue scelte. 
Dalle sue parole e dai suoi silenzi, dalle pause di riflessione che l'autrice si riserva prima di dare alcune risposte, salta fuori un quadro complesso ed eterogeneo come complesso ed eterogeneo è ogni quadro che ritrae una donna. La sua attività di scrittura, si coniuga con gli impegni professionali e familiari e si connota di un impegno civico tutto incentrato sulla donna e sulla comunità ladina. Il suo impegno, portato avanti con consapevolezza e coraggio, viene raccontato con la leggerezza e l'entusiasmo che solo la passione e il divertimento riesce a dare.

Sul sito di Gana, di cui avremo modo in seguito di parlare più approfonditamente, Olimpia Rasom scrive, nella sua breve presentazione: “Da quando ho iniziato la ricerca per il mio dottorato sulle donne ladine, non ho più smesso di scrivere con loro”. Le abbiamo chiesto di spiegarci questo “con” che è carico di significato e lei ci specifica che la sua scrittura è una “scrittura corale” totalmente volta “a dare voce” alle donne che così diventano protagoniste assolute dei sui testi. Come sarà più chiaro dalle sue risposte, l'attività della Rasom è volta ad un impegno costante e entusiasta nella promozione della figura della donna e della comunità ladina, a discapito, verrebbe quasi da dirsi, dall'egocentrismo tipico di alcune firme della letteratura più incentrate a scrivere testi che non solo altro che un riflesso narcisistico della loro essenza. 

Ma procediamo con ordine e iniziamo a conoscere la studiosa Rasom.



Ha svolto un dottorato sulle donne Ladine. Cosa ha indagato e con quale finalità e metodologia?

L'idea era di vedere che tipo di pensieri hanno le donne ladine quando si parla di lingua ladina, cultura ladina e ladinità. L'obiettivo era dare voce ai pensieri delle donne sui temi discussi dalla politica, sui temi di tutela della minoranza e della cultura ladina. Ho realizzato numerosi focus group e interviste nella Val Gardena, Val di Fassa e Val Badia, suddividendo le intervistate secondo varie categorie, l'età, la professione e il ruolo nel processo di promozione culturale e linguistica. È stata una ricerca molto interessante per me e per le donne coinvolte perché ci ha costrette a cercare dei significati sull'identità ladina. L'identità è implicita nel nostro essere, ma essere una minoranza ci obbliga ad un'autoriflessione, alla presa di coscienza del sé e alla ricerca del senso di essere ladini. Il mio obiettivo era andare oltre le dinamiche riduttive che vedono una cultura rappresentata e rappresentarsi solo tramite caratterizzazioni per certi versi liminali, come il mero vestito tradizionale. Volevo esplorare quanto l'apporto femminile avesse giovato, migliorato o semplicemente modificato la politica di tutela che viene, di norma, portata avanti solo da uomini. 


Quali sono stati i risultati della sua ricerca? 

Sicuramente è emerso un forte legame con il territorio. Il fatto che questa comunità abbia fatto sopravvivere una lingua come il ladino per duemila anni è sintomo che il legame con questa lingua e con la cultura che questa rappresenta, molto ci spiegano della suo radicamento. La cosa interessante è stato vedere come le donne rappresentano se stesse come “ladine”. Avevo chiesto loro di portare un oggetto che le facesse sentire legate al mondo ladino e sono rimasta molto sorpresa dalla libertà che le donne si sono prese: chi ha portato delle fotografie di famiglia, chi una tesi di dottorato, chi un documento programmatico per la tutela dei ladini degli anni ’70, chi un fiore del cappello dei coscritti del padre. È stato interessante osservare come le donne si rappresentano e soprattutto come liberamente si situano nella realtà ladina. Il risultato più importante è però quello di aver provocato un piccolo cambiamento qualitativo nella realtà delle donne che hanno partecipato alla ricerca. E questa è stata una bella soddisfazione. 


Quando è stato difficile coinvolgere le donne in questo lavoro di ricerca? 

Il coinvolgimento in sé non è stato difficile, le donne hanno voglia di raccontare e di raccontarsi. Se c'è stata una difficoltà c'è stata nella misura in cui la donna ha una vita molto frenetica e piena di responsabilità che spesso le ostacolava nella partecipazione attiva alla ricerca stessa.


Partecipare ad una ricerca come questa, però, mette la donna quasi in un ruolo pubblico, che di solito non le è concesso. Quanto questa presa di posizione è stata difficile? 

Le donne non la vedono in questo modo. Tutta la politica rimane gestita dagli uomini e questo, se da una parte è un aspetto negativo e limitante per il ruolo delle donne, dall'altra le libera da qualsiasi restrizione di sorta. Non sentono la responsabilità di parlare a nome di... ma si sentono libere di potersi raccontare senza dover scendere, necessariamente, sul terreno delle politiche. 
Tuttavia, la sola partecipazione ad un lavoro di questo tipo riveste la donna di un ruolo nuovo...
Indubbiamente! Ma non so quanto ne sia consapevole. 


E quanto perdiamo di questa mancata consapevolezza? 

È una medaglia con due facce. Da un lato questa inconsapevolezza la rende libera, dall'altro le rende non soggetto. Pensando alle donne che hanno lavorato con me a questa ricerca, però, non posso non notare come proprio il processo di autoriflessione sul proprio sé sociale le abbia rese maggiormente consapevoli della loro peculiare cifra culturale e proprio in ragione di questo le abbia rese soggetto, parte attiva nella promozione e salvaguardia della cultura. Inevitabilmente, l'interrogarsi procede coscienza e la coscienza modifica la realtà. 
Tuttavia, la consapevolezza è ancora poca, queste chiacchiere o modi di pensare rimangono cose 'da donne', la politica rimane ancora troppo un affare da uomini.


Gana è sicuramente un progetto ambizioso, una rivista complessa e moderna che pone proprio la donna al centro del suo focus e tramite le sue parole e i suoi occhi racconta la cultura ladina, ma non solo, anzi, Gana tradisce proprio quello che potremmo aspettarci da una rivista scritta in una lingua madre come il ladino. Qual è l'idea di base che vi ha ispirato? 

Noi volevamo trattare argomenti che era possibile trovare solo in altre lingue, volevamo guardare la società ma con una prospettiva femminile.


Ci fa un esempio? 

Tutti gli articoli presenti su Gana, tutti scritti in ladino, non avrebbero avuto spazio da nessuna parte. Forse alcuni avrebbero trovato posto sul settimanale ladino “La Usc”, che è la rivista più diffusa in ladino, che però ha più un taglio legato alla realtà e alla cronaca. Mentre con Gana cerchiamo di coprire una fetta della letteratura che al momento è priva di un canale di comunicazione, infatti, i nostri articoli spaziano dalla ricetta di cucina, al reportage di viaggio, alla critica letteraria o artistica fino a giungere agli articoli più accademici e scientifici. 


Gana è terribilmente contemporanea, è una rivista che tutela e promuove la cultura ladina senza, nei fatti, mai vincolarsi alle pratiche di tutela delle lingue minoritarie. Quando è difficile portare avanti un progetto di questo di tipo? Quanto è complicato farsi promotore di una lingua e di una cultura minoritaria senza mai prestare il fianco a pratiche che potrebbero portare alla cristallizzazione della cultura stessa e all'anacronismo? 

Il nostro obiettivo era proprio quello. Il fatto di poter scrivere di qualsiasi cosa che succede in valle o nel mondo mette il ladino allo stesso piano di una qualsiasi altra lingua, che sia l'italiano, il tedesco o l'inglese. Infatti noi [la redazione di Gana] senza volerlo non parliamo mai di minoranza etnolinguistica, il ladino, in Gana, è una lingua come le altre, e come tutte le altre lingue viene impiegata per parlare di quanto coinvolga il mondo e le donne. Il nostro approccio parte proprio dalla presa di coscienza che il ladino è una lingua con cui si può vivere nel mondo, il nostro approccio è finalizzato alla promozione dell'uso del ladino, non alla sua mera tutela. Il lavoro di Gana è culturale, è un lavoro che va oltre il lavoro di tutela della lingua e della cultura che c'è già e che viene sempre fatto. 


Quanto è difficile fare un lavoro di questo tipo? 

Difficile non è, ci vuole solo tanto tempo. La quotidianità è ricchissima di fatti da raccontare. Ma abbiamo tutte un lavoro, una famiglia e anche altre passioni. Se una difficoltà può esserci è quella, il fatto che noi portiamo avanti Gana con la passione e la volontà di fare una cosa che ci stimola e ci diverte ma che non è l'unica cosa che caratterizza le nostre vite e i nostri impegni.


Qual'è la storia di Gana? 

Gana nasce nel 2007, parte con una certa incoscienza, dalla volontà mia e delle mie colleghe di creare una cosa carina ma senza nessuna pretesa di diventare quello che poi è diventata. Gana parla di donne ma è il frutto della volontà di un gruppo di donne che davanti ad un caffè o al bar davanti ad un aperitivo iniziano a pensare e a creare qualcosa, a buttare giù delle idee. Gli sviluppi successivi, però, sono stati inattesi e così abbiamo avuto la necessità di fermarci e di fare il punto della situazione. Gana stava crescendo e meritava che anche noi come redazione chiarissimo intenti, finalità e modalità. 
Oltre a tutta la parte più tecnico-burocratica abbiamo dovuto anche soppesare il carico di lavoro che gravava sulle nostre collaboratrici in un progetto che cresceva e crescendo si complicava e si ampliava.


Come è cresciuta, cambiata Gana? 

Gana nasce come rivista cartacea e vengono pubblicati 21 numeri. Le pubblicazioni si fermano per circa un anno e mezzo, durante la pausa riorganizzativa strutturiamo e inauguriamo il sito web e decidiamo di affiancare alla rivista on-line una pubblicazione annuale cartacea. Naturalmente essendo un'attività che facciamo per passione, tutto il coordinamento e la parte burocratica è la parte del lavoro più gravosa ma, fortunatamente, abbiamo numerose persone che hanno voglia di collaborare con noi e di dare il loro contributo alla crescita di Gana.
Il numero cartaceo pubblicato dopo la pausa delle pubblicazioni è un numero monografico sulla guerra, azzarderei a dire che è un numero maturo, ha un carattere ben preciso. In quel numero Gana mostra la sua piena identità.


Come avete indagato il fenomeno della guerra rimanendo centrate sulla donna e sulle questioni di genere? Ci racconti un po' l'ultimo numero di Gana? 

L'idea di questo numero è di qualche anno fa, avevamo iniziato a parlarne nel 2012 o 2013. Avevamo voglia di fare qualcosa sulla Grande Guerra, visto che si avvicinava il centenario, ma per il momento accantonammo il progetto. Dovevamo chiarirci su cosa volevamo in questo numero, su come trattare l'argomento senza cadere nella retorica, nell'anacronismo o in un mitizzazione dell'impero asburgico. Volevamo staccarci da un rimando eccessivamente territoriale e focalizzare l'attenzione sulle donne dell'area di confine, che è proprio l'area ladina. 
Non potevamo, però, non tener conto del fatto che è tutto connesso quindi abbiamo preso in considerazione studi di carattere più generale, tralasciando naturalmente gli studi accademici sui conflitti, la politica e la diplomazia, e ci siamo incentrate sul ruolo femminile e sulle vite delle donne che il conflitto l'hanno vissuto. 
Apriamo il numero con il contributo di Luciana Palla che è per noi la storica ladina di riferimento che ha svolto studi sul popolo ladino con particolare attenzione per il periodo che va dalla fine dell'800 ai primi del '900. Dopodiché abbiamo spaziato in vari ambiti concentrandoci sempre sul ruolo della donna, letto e osservato da vari punti di vista. 
In quest'ottica si trova il contributo di un ricercatore di Vienna che ha fatto la tesi di dottorato sulle donne e la Prima Guerra Mondiale; l'intervista alla storica Siglinde Clementi che si occupa di emancipazione femminile prima e dopo la Grande Guerra; abbiamo dato spazio alle storie del quotidiano, a quelle magari tramandate oralmente; abbiamo sviluppato tutta una ricerca iconografica recuperando moltissime fotografie di donne durante la Prima Guerra Mondiale, la maggior parte delle quali recuperate al museo storico di Rovereto e su queste abbiamo scritto dei piccoli articoli didascalici; Ingrid Runggaldier ha fatto un gran lavoro sulla Bertha von Suttner che è stata una grande pacifista austriaca, derisa da tutti ma col senno di poi si può dire che aveva tutta la ragione di questo mondo a lottare per fermare la guerra; io ho studiato la corrispondenza epistolare che Maria Piaz inviava alla famiglia dopo essere stata internata per tre anni in un campo di internamento vicino a Vienna. Maria Piaz fu la prima donna che puntò tutto sul turismo, aprendo un rifugio al Passo Pordoi già agli inizi del Novecento. Questa è una cosa molto importante perché la donna ladina, proprio tramite l'investimento nel settore turistico riesce, il più delle volte, ad emanciparsi e in questo Maria Piaz fu una pioniera. Il turismo ha segnato tutta la storia del nostro territorio, che riuscì a svilupparsi proprio grazie al settore turistico. C’è poi un bellissimo articoli di Matteo Ermacora sulle donne dei territori italofoni dell’Impero asburgico che venivano mandate lontano da casa dal Governo italiano (dopo che questi avevano occupato i territori al confine). Sono storie tragiche e tremende che finalmente possiamo conoscere.
Nell'analisi delle lettere di Maria Piaz ho analizzato come questa donna riuscisse, anche a distanza e tramite la scrittura, ad essere comunque una figura presente ed educativa per i suoi figli. A questi articoli più di impianto storico ci sono quelli, invece, collegati alla contemporaneità, quindi, penso a quello di Lucia Gross su Teresa Sarti e Cecilia Strada e il ruolo di promozione sociale della donna che porta avanti Emergency o quello di Anna Mazzel sulle figure di Ilaria Alpi e Anna Politkovskaja e sul ruolo della donna in contesto di guerra, sui rischi che queste donne corrono per poter testimoniare la storia e il sacrifico della vita stessa per testimoniare la verità. 


La storiografia ci ha abituati a trattare la guerra come un affare solo degli uomini. Tendenzialmente la donna nei conflitti è meramente e passivamente vittima. Che quadro avete dato della donna ladina nel Primo Conflitto Mondiale? 

Nel bene, ma in questo caso. Nel male la guerra è molto democratica nella sua atrocità e su questo non si può fare un distinguo tra donna ladina e non. Il conflitto si è abbattuto su queste donne disgregando le loro famiglie e costringendole a farsi pilastro unico della famiglia e in qualche modo della società stessa. Le donne, private dei loro mariti, hanno dovuto sopperire anche alla mancanza fisica dei loro congiunti, facendo le loro veci, facendosi più forti per coltivare la terra ma senza la possibilità di migrare, possibilità che avevano gli uomini in tempo pace, perché nonostante tutto rimanevano legate e fondamentali per il nucleo familiare e i bambini.


Quanto materiale storiografico abbiamo in nostro possesso che ci permette di ricostruire le vite quotidiane delle donne durante i conflitti armati? 

Poco per quanto riguarda la storia delle donne ladine durante il primo conflitto mondiale. Proprio con Gana abbiamo avuto l'obiettivo di far riflettere uomini e donne su quelle storie. Molta memoria è andata persa, molta memoria storica collettiva non è sopravvissuta fino ai giorni nostri anche perché gli studi di genere sono iniziati molto tardi. È sopravvissuto qualche diario che ci da uno spaccato della vita che conducevano queste donne ma questo tipo di testimonianza perde di valore quando viene accostata alle testimonianze degli uomini impiegati al fronte. 
Sicuramente un approccio alla storia che potrebbe essere definito maschilista ha ed ha avuto il suo peso.
Sicuramente, ma va aggiunto il fatto che nelle valli Ladine, un tipo di ricerca di questo tipo è tuttora molto scarsa e molto recente. La strutturazione di un lavoro di questo tipo è un lavoro da costruire, è un percorso in divenire in cui siamo solo all'inizio.


E le donne, ladine e non, hanno voglia di farlo? Sono motivate a svolgere una ricerca finalizzata alla costruzione della loro identità storica femminile? 

Le donne lo fanno già. Le donne sanno che devono lavorare per far riconoscere uguale dignità al loro punto di vista e alla loro storia nei confronti degli uomini. Negli ultimi anni, questa corsa alle pari opportunità, questa corsa a diventare come i maschi porta molte donne ad interrogarsi sulla femminilità, femminilità che non è lo specchio della mascolinità, non deve essere identica alla mascolinità, ma deve riuscire a far riconoscere la sua unicità. La donna vive, al momento, una fase di transizione, una fase caratterizza anche dalla grande eterogeneità e dalla mancanza di un movimento unitario di matrice femminista.


Non pensa che in una società come la nostra che è indubbiamente maschilista, il pericolo per le donne siano, in alcuni casi, alcune donne stesse?

Sicuramente. Il ruolo e la figura della donna è spesso vilipesa da una forma mentis peculiarmente maschile, ma anche la mancata indignazione di molte donne per la situazione attuale porta a risultati disastrosi. Attualmente le nostre strade sono tappezzate da una pubblicità sulla sicurezza stradale di cui mi sono occupata personalmente su Gana. I manifesti raffigurano una motociclista in shorts, tacco 12 e giubbottino di pelle con una protesi alla gamba a seguito di un incidente. Di quella vittima non si sa nulla e non si vede neanche il viso, ma solo gli abiti provocanti. Non riesco a pensare ad altro che la donna debba farsi complice di questo gioco maschilista e debba percepirsi e farsi percepire solo come oggetto erotico.


Carissima Olimpia, rimandiamo allora alla lettura del numero di Gana di cui abbiamo presentato solo alcuni degli argomenti trattati ma le chiediamo curiosi cosa c'è in programma per il prossimo. 

Idee, per fortuna o per sfortuna, ne abbiamo sempre tante. Stiamo ragionando principalmente su due filoni che potrebbero essere il fil rouge del prossimo numero. Il primo riguarda la donna all'interno dei processi migratori e il secondo, su idea della mia collega Ingrid Runggaldier, potrebbe essere incentrato sulla passione. Quindi su quello che muove ogni singola donna. Il secondo riguarda il tema delle migrazioni, in particolare di donne, di questo fenomeno che sta cambiando i nostri orizzonti e cambierà l’idea che ci eravamo fatte del nostro futuro.
Siamo ancora in fase di valutazione quindi dovrete aspettare il nuovo numero di Gana per scoprire quale tema avremo scelto e come lo avremo sviluppato.


Andrea Distefano





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