venerdì 24 giugno 2016

Siria, a sei anni dai primi movimenti di rivolta il conflitto persiste immutato e atroce

Intervista ad Asmae Dachan


La giornalista Asmae Dachan ci presenta il suo punto di vista sul conflitto, la sofferenza del popolo, le ambiguità della Comunità Internazionale e il ruolo attivo ed eroico della comunità civile che lotta per il futuro del suo Paese.

La guerra in Siria, scoppia il 15 marzo 2011. Inizia con dei moti pacifici di protesta contro il regime autoritario e diviene, in breve tempo, un conflitto nazionale che coinvolge l'intero Paese, genera milioni di profughi e uno dei genocidi più gravi degli ultimi tempi. Parliamo di quanto sta accadendo con Asmae Dachan, che abbiamo avuto già il piacere di avere come nostra ospite nell'edizione precedente e che ritorna per parlarci del suo popolo di origine e di quello che sta accadendo in Siria e nelle nazioni limitrofe in questo periodo. 


Dottoressa Dachan, come scrittrice e giornalista sta raccontando il dramma della guerra in Siria, ci racconta il suo ultimo anno professionale? 

Dopo un periodo di interruzione per motivi personali ho ripreso a scrivere con costanza e a gennaio sono partita per recarmi sul confine turco-siriano. Il mio intento era entrare in Siria ma non è stato possibile. 


Cosa hai potuto vedere lì?

In quella terra di confine ho visto una piccola Siria. Il numero dei profughi siriani in quei territori è elevatissimo e ci sono cittadine di confine in cui la popolazione è maggiormente costituita da siriani. 


Quale zone di confine hai visitato? E per quanto tempo?

Sono stata principalmente nella zona di Reyhanli e in una serie di villaggi lì vicino. Ho visitato principalmente siriani che non vivono nei campi profughi “istituzionali” che sono ormai al collasso e che invece si sono autoorganizzati e cercano di sopravvivere basandosi sulle proprie forze.

Quali sono le condizioni dei profughi siriani in Turchia?

In Turchia vi sono diversi campi profughi allestiti già nel 2011 a cui ne sono stati aggiunti altri quest'anno successivi all'ondata di profughi scaturita dall'offensiva di Aleppo. Chi ha la possibilità di accedervi benefici sicuramente di una situazione migliore rispetto a chi ne rimane fuori. Essendo campi gestiti in collaborazione tra le autorità turche e l'Unhcr, i profughi accolti lì hanno la possibilità di avere assistenza medica e un minimo di copertura economica. È sempre una vita precaria e terribile ma hanno sicuramente maggiore assistenza. Cosa ben diversa per chi si deve arrangiare con i mezzi propri al di fuori dei campi profughi.
In quei territori sono entrata in contatto con una rete di donne che hanno creato dal nulla un gruppo di solidarietà che, tramite il passaparola, riesce ad accogliere e seguire le nuove donne che arrivano sul territorio e che non sono accolte o non voglio essere accolte in una campo profughi. Si tratta di una rete di donne siriane, soprattutto vedove, che danno tutte le informazioni utili necessarie alle nuove arrivate. Questa rete di donne può segnalare la presenza di una donna, nella maggior parte delle volte, donne sole con bambini, alle Ong siriane presenti sul territorio e così innescare i percorsi di accoglienza e presa in carico. 


Com'è il rapporto tra il popolo turco e i profughi siriani in quei territori?

Questo rapporto io l'ho visto evolvere. Va detto che il conflitto in Siria dura da sei anni, un periodo di tempo più lungo perfino del secondo conflitto mondiale, per cui se nei primi anni i turchi provavano tanta solidarietà, accoglienza e pure un senso di pena nei confronti dei vicini siriani che non erano mai stati costretti a fuggire dal loro Paese, anzi, avevano accolto profughi armeni, palestinesi, iracheni, ecc. da quest'anno mi sono resa conto che con più di 3 milioni di profughi siriani registrati e migliaia di profughi clandestini si è arrivati ad una situazione di insofferenza. Nei villaggi di confine i siriani sono in maggioranza rispetto agli autoctoni, come dicevo, e inevitabilmente diventano un peso sociale. I siriani hanno in media un numero maggiore di figli rispetto ai turchi e questo ha messo in grave difficoltà il sistema scolastico e quello dell'assistenza pediatrica. C'è un clima di insofferenza ma allo stesso tempo mi sono resa conto che per quei villaggi di confine i siriani sono diventati una fonte di arricchimento. Per esempio, le Ong che operano in quelle zone hanno l'obbligo di assumere personale turco e poi, per quanto riguarda l'accoglienza, sono stati costruite palazzine fatiscenti che vengono comunque affittate a prezzi esorbitanti. Tuttavia, la presenza dei siriani mette a rischio l'incolumità dei turchi in quanto sono state bombardate le zone di confine e a seguito di questi bombardamenti sono stati numerose le vittime di nazionalità turca.


Lo sfruttamento dei siriani è anche da un punto di vista lavorativo?

Purtroppo molti siriani anche minori lavorano in nero e non hanno nessun tipo di garanzia sindacale. La situazione di sfruttamento coatto dei siriani è la medesima in Turchia, in Libano e in Giordania. Lo sfruttamento riguarda anche gli aiuti internazionali che, nella maggior parte dei casi, raggiunge i profughi solo in parte.


Ben coscienti che la situazione è molto lontana da una pacifica conclusione, cosa pensi che si dovrebbe fare per migliorare la situazione attuale in merito all'accoglienza e alla convivenza 'forzata' tra i popolo?

C'è da prende atto, innanzi tutto, che la situazione attuale non durerà per settimane o per mesi. Il conflitto in Siria, anche se non viene più coperto da un punto di vista mediatico, prosegue ed è terribile. Solo negli ultimi giorni sono stati bombardati ad Aleppo altri due ospedali di cui uno pediatrico. Il conflitto prosegue e quindi, non solo aumenterà il numero di profughi ma non si può sperare in un ritorno in patria dei siriani che sono fuori dai confini nazionali. Questo fa sì che si debbano cambiare le politiche dei paesi che stanno accogliendo i siriani. 
Per periodo così lunghi non si può pensare solo ad un'accoglienza assistenzialistica ma si deve pensare a dare a questi siriani gli strumenti per ricominciare a ricostruire una vita degna di questo nome. Offre delle opportunità lavorative, riportare i bambini sui banchi di scuola, molti hanno perso molti anni di studio, molti altri non sono mai stati alfabetizzati, dare alle donne la possibilità di riprendere in mano le loro vite sono le uniche strade percorribile per traghettare la situazione attuale da una condizione emergenziale ad una più stabile e duratura che possa portare ad una vera e propria integrazione e convivenza tra i popoli. Non più assistenza ma possibilità di accedere a percorsi mirati di formazione e di reinserimento socio-economico. Per esempio, molti di loro hanno delle qualifiche in Siria che, non essendo riconosciute nei paesi di arrivo, non gli permettono di lavorare. Questa è una grande perdita sia per i profughi sia per i Paesi ospitanti che perdono un enorme potenziale di risorse umane. 


Come definisci le scelte diplomatiche e politiche dell'Occidente in merito al conflitto in Siria? 

Rispetto a tutto quello che sta accadendo dobbiamo prendere atto che l'Europa ha accolto molti profughi siriani, pensiamo alla Germania, alla Svezia e al lavoro delle isole del sud Italia. In Italia non abbiamo assistito ai risvolti drammatici che abbiamo visto nei Balcani, non ci sono barriere, non c'è filo spinato, non ci sono i militari con i kalashnikov puntati ma ci sono le mani tese degli operatori delle coste. 
C'è da un lato da riconoscere che l'Europa sta accogliendo a differenza dei paesi del Golfo che, pur avendo in comune con la Siria una vicinanza culturale e linguistica, stanno facendo molto, troppo, poco. Dall'altro lato, però, c'è da dire che la comunità internazionale, quindi sia l'Occidente che i Paesi del Golfo, non si sono impegnati sul piano politico e diplomatico. 
Il conflitto in Siria va avanti, come dicevo prima, da sei anni e non è stata firmata una sola risoluzione dell'Onu che garantisca la fine delle ostilità, c'è sempre stato il veto della Cina e della Russia. Non c'è, secondo me, la volontà politica di porre fine alla mattanza dei siriani. La conseguenza di tutto questo è che, non solo i siriani stanno perdendo la propria patria, la propria storia, la propria identità ma è l'umanità stessa che sta perdendo moltissimo. Questo conflitto sta spazzando via l'esempio di una convivenza che era emblematica ed ispiratrice per il resto del Mondo. Una convivenza costruttiva e pacifica tra religioni ed etnie diverse.


Quali sono, secondo te, gli interessi per non finire questa guerra? 

Il fatto stesso che in un conflitto che stava già mietendo molte vittime sia entrato l'Isis ci fa capire che la guerra in Siria non poteva essere solo un conflitto che coinvolgeva un popolo e la sua lotta per rivendicare la propria libertà ed autonomia. L'entrata in scesa dell'Isis ha totalmente distolto l'attenzione da quella che era la causa del popolo siriano e ha creato degli scenari terrificanti che hanno di fatto allontanato quella parte dell'Europa che era solidale con l'iniziativa del popolo siriano. Le cause sono tante e diverse. 
La prima, sicuramente, è geografica. La Siria è un paese che ha dei confini molto importanti, da un lato c'è la Turchia, dall'altro l'Iraq e poi c'è la Terra Santa. Qualsiasi cosa si muova in Siria ha delle ripercussioni anche sui Paesi vicini e questo complica l'attività della comunità internazionale perché diventa faticoso vedere ri-disegnato un nuovo profilo per questo Paese. 
Poi c'è sicuramente da fare una riflessione sul petrolio e il gas naturale. Non fu un caso che la Russia decise, svariati anni fa, di sostenere Assad. Le era necessario avere una colonia nel Mediterraneo e quella colonia era la Siria. Per questo motivo, le navi russe sono al porto di Tartus già dal 2011. C'è un interesse che la Russia vuole tutelare e questo non porterà ad instaurare delle alleanze, ogni nazionale nello scacchiere globale farà di tutto per tutelare i propri interessi in una zona così importante e strategica.


In questo inferno che è la guerra in Siria, l'Italia ha un minuscolo primato positivo che è la realizzazione dei primi corridoi umanitari, cosa ne pensi?

Il gesto del Papa di andare sull'isola di Lesbo e di abbracciare sia i profughi sia chi li sta accogliendo tra mille fatiche è stato molto bello e molto significativo. È stato un fulmine a ciel sereno rispetto ad una Europa che sta costruendo muri e che srotola filo spinato ovunque e rispetto alla insensibilità dei Paesi arabi che non stanno accogliendo nessun profugo siriano. Quello è stato un gesto per dire che l'accoglienza si può fare e si deve fare. 
Ho trovato altrettanto simbolico, ma molto forte il gesto di portare in Italia 12 siriani. Il numero è emblematico, 12, come il numero degli apostoli. Quello è stato un messaggio di pace e di speranza; un gesto proteso ad umanizzare il volto di queste persone; c'era la volontà di non considerare i profughi come un problema ma di empatizzare con loro e con la loro storia. Quello che ha voluto fare il Papa è stato spingere la chiesa ad interrogarsi sul fatto che, se un popolo sta fuggendo e se sta fuggendo in quelle condizioni e per quelle vie disperatissime, è perché in Siria ormai non si può più vivere senza rischiare continuamente la vita. 
In Italia, con l'impegno della Comunità di Sant'Egidio, si stanno realizzando questi corridoi umanitari tramite i quali stanno arrivando le prime famiglie di siriani e proprio in quest'ultimo periodo sono stata molto impegnata a formare le comunità che si preparano ad accogliere le famiglie siriane. Partecipo frequentemente a degli incontri in cui parlare della Siria e della situazione attuale. 
Ho notato che le comunità che stanno accogliendo queste famiglie si stanno preparando al meglio perché non vogliono limitarsi all'assistenza, ma vogliono che la loro accoglienza sia anche un modo per riconoscere la sofferenza dei profughi e la ricchezza culturale che i siriani portano con sé.


I profughi siriani sono milioni, i corridoi umanitari sono l'unica possibilità per evitare i viaggi della speranza, ma secondo te, quanto sono praticabili percorsi di questo tipo su larga scala, visto che finora hanno impegnato solo realtà private?

I corridoi umanitari sono l'unica strada non solo per evitare le pericolosissime traversate in mare che tante vittime hanno mietuto ma anche sono l'unica strada per contrastare efficacemente i trafficanti di esseri umani perché dobbiamo renderci conto che i siriani, per passare da una città all'altra della Siria, e poi per oltrepassare i confini nazionali e infine per giungere alle coste libiche o turche o greche, hanno pagato e hanno pagato miliardi. Mi chiedo perché abbiamo fatto finta di non sapere, di non sapere che esistono gli scafisti, di non sapere che esiste la mafia del traffico degli esseri umani, perché non abbiamo permesso a queste persone di viaggiare e fuggire legalmente. Abbiamo lasciato questi disperati in mano alla criminalità organizzata e poi siamo pronti a commuoverci davanti alla foto di Aylan, siamo solo degli ipocriti. Perché Aylan non è stato né il primo né l'ultimo bambino vittima del mare e di questa guerra. 
Non c'è molta coerenza nel nostro agire e nel nostro pensare. Come dici tu, la comunità civile, le associazioni, le singole parrocchie sono più attive delle istituzioni che sono in stallo. Questo è un aspetto positivo che mostra la solidarietà e la sensibilità che caratterizza gli esseri umani, dall'altro però, l'indecisione delle istituzioni è allarmante. 
Per lavoro giro molto l'Italia e frequento numerosi convegni e lì noto come le persone hanno bisogno di guardare l'altro negli occhi e hanno bisogno di riscoprire la propria natura solidale, hanno bisogno di capire che se questo popolo continua a fuggire c'è sicuramente qualcosa che non è stato raccontato come doveva. Il fatto che siano stati bombardati altri ospedali in questi ultimi giorni e che questo non è stato riportato da nessun giornale è sconcertante. Non riesco a capire questa quasi omertà. Non possiamo parlare di assuefazione solo perché la guerra in Siria dura da sei anni, quando viene bombardato un ospedale pediatrico l'umanità dovrebbe essere sempre sgomenta e indignata. 


Qual'è il rischio di comunicare la guerra? Il filo sottile tra diritto di cronaca e morbosità è molto sottile. Nella comunicazione della guerra, nella fruizione delle notizie di un conflitto sanguinario come questo qual'è il tuo giudizio sul popolo italiano e sulla stampa italiana? 

Devo fare una premessa. Le notizie della Siria oggi arrivano da due canali. Il primo è quello degli ordini di stampa ufficiale e quindi dei media del regime che non sono liberi e che non racconteranno mai che l'aviazione del governo ha bombardato un campo profughi o un ospedale, ma faranno la solita tiritera per raccontare che sono state bombardate postazioni dell'Isis come se l'Isis fosse in qualsiasi angolo del mondo e della Siria. Dall'altro, c'è la stampa straniera che ha come unica possibilità, per raccontare il conflitto, quella di entrare in Siria come giornalisti embedded. In quel caso i giornalisti hanno le mani legati. Sono molto pochi coloro che riescono ad entrare nel territorio siriano come embedded e poi riescono a raccontare all'utente finale la vera realtà in tutta la sua complessità. Ai giornalisti è permesso muoversi solo a seguito delle truppe e da queste sono controllati a vista. L'unico modo efficace per avere notizie veritiere e approfondite è quello di seguire gli scritti dei freelance siriani ma questa è un'attività molto difficile e complessa che può fare un giornalista ma che sicuramente non è alla portata dell'utente finale comune. C'è proprio un problema oggettivo nel raccontare la Siria perché un giornalista indipendente, in particolar modo negli ultimi due anni, non riesce ad entrare in Siria, quindi, c'è la difficoltà ad avere informazioni autorevoli. 
Il secondo problema riguarda il fatto che il lettore di un giornale o l'usufruitore di un programma televisivo, il ragazzo che naviga tra siti e blog va educato e che la mancanza di questo sicuramente ne deresponsabilizza le scelte e le opinioni. Ogni giorno si parla dell'Isis ma mai questa organizzazione terroristica viene contestualizzata con accuratezza. Dalle notizie che ci giungono dai canali ufficiali sembra quasi che l'Isis si sia materializzato dal nulla, come dei marziani che sono atterrati sulla terra, e il continuo parlarne [decontestualizzato] permettere a questa organizzazione di monopolizzare le nostre menti e le nostre paure.
Quello che ne deriva è che l'ascoltatore più distratto ritiene che in Siria ci sia una guerra tra governo e Isis e ci si dimentica del popolo e della società civile. Questo porta a dimenticarsi dei moti di solidarietà nei confronti del popolo siriano che caratterizzano i primi periodi e porta a quello che è una vera e propria assuefazione alla guerra. Il fatto che in Siria ci sia una guerra rende normale il bombardamento di un ospedale pediatrico, è un danno collaterale che non scandalizza più di tanto. Il bombardamento di un ospedale che viola tutte le convenzioni internazionali, proprio per la sua gravità, dovrebbe essere sempre in prima pagina anche se diventasse, drammaticamente, routine. Come genere umano non possiamo abituarci, annoiarci, alla morte e alla distruzione della guerra. Così perdiamo pezzi della nostra umanità e in fine, noi stessi.
Il giornalismo deve andare oltre i fatti e i numeri, deve riportare le storie e le persone per riuscire a non rendere mai un conflitto e una strage, come quella che si perpetua in Siria, abitudine. 


L'Esercito Libero Siriano è un attore sociale in questo conflitto che con il passare degli anni si sta caratterizzando per luci ed ombre. Come è nato e come si sta evolvendo?

Proprio in questo mio viaggio ho avuto la possibilità di incontrare e intervistare, in una località segreta, uno dei fondatori dell'Esercito Libero. Lui è un uomo che è scampato a diversi attentati e nell'ultimo ha perso una gamba. È un morto che cammina perché su di lui pendono condanne a morte sia da parte dell'esercito del regime che dell'Isis ma è un uomo che non ha mai smesso di lottare. Mi raccontava che quando hanno fondato l'Esercito Siriano Libero il loro intento non era di uccidere ma di difendere i civili. Quello che è avvenuto in questi anni, però, è stato il frammentarsi della matrice originaria dell'esercito di opposizione e spesso, alcune di queste matrici hanno avuto derive violente e sanguinarie, gettando discredito e incertezze sull'intera opposizione siriana. 
Ad esempio, se parliamo di Jabhat al-Nusra parliamo di un'organizzazione molto discussa, entrata nella lista delle organizzazioni terroristiche, che si proclama come ente di opposizione ma che in realtà ha provocato la morte di migliaia di civili e il suo operato non sempre è riconducibile alle azioni di un popolo che si difende. Anche nell'Esercito Libero ci sono, poi, molti infiltrati. Ritengo comunque che ogni uomo che imbracci un arma non possa essere considerato un santo, anzi. Benché tutt'oggi le posizioni dell'Esercito Libero e i suoi moti ispiratori siano perfettamente condivisibili sono fermamente convinta che gli uomini che lo compongono, dopo anni di violenza, siano cambiati e siano diventati macchine da guerra, allontanandosi da quello che erano un tempo, militari disertori che si oppongono al regime totalitario a favore e a tutela dei civili. 
Ti faccio un parallelismo con l'Italia che forse è un po' forzato. L'Italia del secondo dopo guerra riparte sicuramente appoggiando le sue radici sull'esempio eroico dei suoi partigiani. Quanto l'Esercito Libero Siriano possa essere ispiratore per la nuova Siria che prima o poi risorgerà dalle sue ceneri.
Sicuramente i principi ispiratori da cui nasce l'Esercito Libero Siriano saranno ispiratori della nuova Siria. I principi sono i medesimi di sei anni fa, di quando ebbe inizio tutto e sono principi di grande forza e dignità. L'Esercito Libero nasce per frapporsi all'esercito del regime e per lasciare fuori dal conflitto i civili. Secondo la loro idea doveva essere una partita che andava giocata tra militari (disertori e non) tutelando l'integrità e la sicurezza del popolo e sempre secondo le loro idee la partita avrebbe avuto un epilogo veloce, tutto si sarebbe concluso nel giro di alcune settimane o alcuni mesi. 
Loro erano militari che avevano giurato si servire il popolo siriano e quello, disertando, volevano fare. Partivano dal paradosso che il popolo siriano era l'unico popolo al Mondo bombardato con le armi che avevano permesso di comprare con le proprie tasse. 
Io stessa, nelle mie riflessioni, faccio molti parallelismi con i partigiani italiani e quel preciso periodo storico ma penso che la nuova Siria, che risorgerà dopo il conflitto, lo farà partendo dalla società civile, quella società civile che è rimasta in Siria o che opera nei campi profughi e che, anche sotto i bombardamenti, continua a prestare il proprio servizio negli ospedali, nella protezione civile, nelle scuole. Quella parte del popolo che nonostante le atrocità e la morte ha scelto la non violenza, la cultura, la tradizione, la solidarietà. 
Queste persone non fanno rumore ma esistono e proprio queste persone stanno portando avanti la Siria. Ci sono donne che partoriscono nelle tende e possono farlo solo perché al loro fianco ci sono altre donne che le assistono e si prendono cura di loro. Ci sono medici e infermieri che lavorano senza sosta anche se privi di mezzi. Ci sono maestre che non hanno smesso di insegnare anche se le scuole sono state rase al suolo. I principi ispiratori della nuova Siria dopo tanti anni di regime e tanti anni di guerra verranno dal basso e fonderanno il Paese sulla tolleranza, la solidarietà e il pluralismo. 
Forse pensare a tutto questo oggi è un 'suicidio' ma io ci credo fortemente perché ho visto il popolo siriano lottare contro tutto quello che sta accedendo e l'ho visto mettere in campo il meglio che può essere generato dalla società civile.


Parli spesso di donne, quant'è difficile essere donna, madre, moglie in un conflitto?

Posso dirti che, e non penso sia un luogo comune, le donne pagano maggiormente il fatto di essere donne in un conflitto. Così come gli uomini le donne subiscono i bombardamenti, gli spari dei cecchini, l'assedio delle città che fa morire di fame interi quartieri e poi subiscono un'altra cosa terribile, di cui non abbiamo ancora parlato, che sono gli stupri. Dati di associazioni siriane che operano sul territorio parlano di centinaia di migliaia di casi di stupri contro le donne e contro le bambine. Sia dentro le carceri del regime, sia ad opera dell'Isis. L'arma dello stupro, come in molti altri conflitti nella storia, è un'arma potente. Sono numerosissimi i casi di stupri reiterati e i casi di gravidanze successive alle violenze. Mi chiedo sempre con quale forza queste donne riusciranno a portare avanti queste gravidanze e a crescere questi figli. Ed è terrificante pensare che per la quasi totalità di loro non ci sia la possibilità di usufruire di un sostegno psicologico, ma in un momento in cui in Siria mancano perfino gli antibiotici, figuriamoci se ci possono essere le risorse per assistere queste donne da un punto di vista psicologico. Al confine, invece, sono sempre più numerosi i centri di ascolto e le associazioni che prendono in carico i bambini che le madri non riescono a tenere. 
Allo stesso tempo, però, le donne stanno dando prova di una forza eccezionale. Nel territorio siriano sono molte le donne che hanno imparato il mestiere di soccorritore e collaborano con la protezione civile o quello di infermiera per lavorare negli ospedali da campo.
In un conflitto, specie in un conflitto lungo come quello siriano, la maternità diviene l'unica arma che una madre mette in campo per tutelare i propri figli dalla violenza e dalla devastazione che diviene la norma...
Quest'anno mi ha colpito molto l'incontro con donne che hanno preso in mano la situazione quando si sono rese conto che i figli venivano 'violentati' sistematicamente dalla guerra. In questi casi le donne hanno sacrificato loro stesse per normalizzare una situazione che di normale aveva ben poco. Molte di esse hanno iniziato a lavorare per permettere alla famiglia di tornare ad una routine pseudo-normale, molte si sono trovate costrette a subentrare al ruolo maschile per il bene del nucleo familiare. Capita, però, che in questi casi le donne si possano trovare prive del sostegno dei compagni che demoralizzati e sconfitti dal conflitto non trovano in loro né le risorse per reagire e rialzarsi, né la volontà di sostenere le loro consorti. 
È come se si creassero binari paralleli. Da una parte le donne, che cercano di trovare una soluzione a tutti i costi e dall'altra gli uomini, che non riescono a reagire e che non accettano che è la donna ad assumere un ruolo di primaria importanza per la sopravvivenza della famiglia. 
Le donne non hanno nessuna volontà di arrendersi. In un campo profughi, che ho visitato, ho conosciuto delle donne che hanno scritto un progetto, approvato e finanziato, per apprendere la professione da infermiera. Questo progetto ha coinvolto molte di loro, tutte giovanissime, che poi sono tornate in Siria a lavorare negli ospedali da campo.


L'ultima domanda di questa lunga chiacchierata. Lo hai accennato prima ma volevo chiederti di specificarlo meglio. Nei siriani c'è una sorta di risentimento nei confronti dei fratelli arabi che hanno avuto un ruolo più marginale, nel sostegno e nell'accoglienza, rispetto alla parte occidentale del Mondo. Quali sono i sentimenti del popolo siriani in merito?

Molti di loro si danno come giustificazione che molti popoli arabi sono nei guai fino al collo. Ad esempio molti siriani avevano trovato rifugio in Egitto e in Libia, poi queste nazioni sono cadute nel caos. Molti siriani si sentono abbandonati, specie dai paesi del Golfo. Sanno bene che arrivano fondi per l'assistenza e le tendopoli ma quello che vorrebbero dai fratelli arabi sarebbe un maggior coinvolgimento politico e diplomatico. Quello che loro percepiscono come tradimento e abbandono è proprio il fatto che molte nazioni arabe che hanno un peso di rilievo nei tavoli internazionali non si siano fatte portavoce delle necessità e delle rivendicazioni del popolo siriano.
I siriani, per esempio, riconoscono che il Libano, un paese molto piccolo, ha fatto sforzi disumani per accogliere un numero enorme di profughi mentre in Giordania i campi sono stati attrezzati in zone disumane e totalmente desertiche. La delusione siriana è continuata poi durante la rotta balcanica quando il loro cammino verso la salvezza è stato ostacolato da ogni sorta di barriera.
Il sentimento più generalizzato oggi tra i siriani è una sensazione di tradimento a livello mondiale, un sentimento che coinvolge sia i potenti Stati arabi ma anche e soprattutto il mondo Occidentale libero e democratico che non ha trovato la forza e la volontà di assistere e sostenere un popolo in fuga da un regime totalitario e da una guerra fratricida.


Andrea Distefano


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